Leonardo e i suoi libri

Premessa

di Paolo Galluzzi

Direttore del Museo Galileo

Nonostante amasse definirsi “omo sanza lettere”, Leonardo non si limitò a trarre insegnamento dall’indagine diretta dei fenomeni di natura. Dedicò non minore attenzione al dialogo con gli autori, antichi e moderni. Negli anni della maturità era divenuto non solo un appassionato lettore, ma anche un insaziabile cacciatore di libri e manoscritti,che concepiva come mappe sulle quali erano segnati sentieri di conoscenza dalla cui esplorazione trarre ispirazione per tracciare percorsi nuovi e meglio illuminati. Alla fine della propria esistenza, arriverà a possedere quasi duecento opere, una biblioteca straordinaria per un ingegnere-artista del Quattrocento.E di questi volumi registrò nei propri manoscritti puntuali inventari per avere certezza di rientrarne integralmente in possesso al momento di ritirarli dai depositi nei quali li aveva lasciati prima di intraprendere uno dei continui viaggi che scandirono la sua esperienza di vita.

Della biblioteca di Leonardo non rimane purtroppo traccia. Un solo esemplare è sopravvissuto alla sua dispersione post mortem:  il Trattato di architettura e macchine di Francesco di Giorgio Martini, lo splendido manoscritto pergamenaceo conservato nella Biblioteca Laurenziana di Firenze, sul quale Leonardo ha vergato dodici postille autografe.

Questa mostra propone, per la prima volta, la ricostruzione integrale della biblioteca di Leonardo, delineandola sua progressiva formazione a partire dal precoce incontro con il mondo dei libri e della parola scritta (Dante, Ovidio), attraverso la lettura delle opere di autori contemporanei affermati (Alberti, Toscanelli, Pacioli), fino alla fascinazione della maturità per i testi classici e medievali di letteratura, di scienza e di architettura (Archimede, Vitruvio, Plinio, Alberto di Sassonia, ecc.).

Nella mostra sono esposti preziosi manoscritti e incunaboli presenti negli elenchi vergati da Leonardo. Applicazioni multimediali consentono non solo di sfogliarli, ma anche di individuare i passi dei codici vinciani nei quali rimangono tracce del loro utilizzo.

Realizzata grazie alla collaborazione di un’équipe internazionale di specialisti, la ricostruzione dell’intera biblioteca di Leonardo sarà contestualmente pubblicata online nella biblioteca digitale del Museo Galileo. E costituirà a lungo una risorsa inestimabile per lo sviluppo degli studi vinciani.


Leonardo e i suoi libri

di Carlo Vecce

Quando avvenne il primo incontro di Leonardo con i libri? Probabilmente molto presto, durante l’infanzia e l’adolescenza a Vinci. La sua era una famiglia di notai fin dagli inizi del Trecento, e i notai erano i depositari di una cultura scritta che doveva garantire il valore legale di atti pubblici: compravendite di terreni o immobili, prestiti, matrimoni, testamenti, successioni. Leonardo, figlio illegittimo del giovane notaio ser Piero (dimorante a Firenze per l’esercizio della sua professione), fu in realtà educato dal nonno Antonio (non notaio ma mercante), che ebbe cura di registrare la nascita del nipote sull’ultimo foglio di un protocollo notarile di suo padre ser Piero di ser Guido: una pagina che per Antonio era una sorta di Libro di ricordi, perché, a distanza di molti anni, l’aveva utilizzata per annotare le nascite dei propri figli, Piero (1426), Giuliano (1428, ma morto poco dopo), Violante (1433) e Francesco (1436):

1452 / Nachue un mio nipote figliuolo di ser Piero mio figliuolo a dì 15 d’aprile in sabato a ore 3 di notte. Ebbe nome Lionardo. Batezollo prete Piero di Bartolomeo da Vinci, Papino di Nanni Banti, Meo di Tonino, Piero di Malvolto, Nanni di Venzo, Arigho di Giovanni Tedescho, monna Lisa di Domenicho di Brettone, monna Antonia di Giuliano, monna Nicholosa del Barna, mona Maria figliuola di Nanni di Venzo, monna Pippa (di Nanni di Venzo) di Previchone[1].

Forse quel protocollo fu il primo “libro” visto da Leonardo, nel senso di oggetto composto da una serie di fogli di carta, piegati, legati insieme, e coperti da righe di piccoli segni scuri che il nonno chiamava «lettere» e «scrittura». Non sappiamo se c’erano altri libri in quella casa, ma possiamo supporre che non vi mancasse una piccola biblioteca di famiglia, non dissimile da molti altri esempi contemporanei dello stesso milieu di mercanti, borghesi, notai. Nel contesto dell’ideologia familiare, dominante in Toscana fra Trecento e Quattrocento, i libri erano oggetti preziosi, trasmessi di generazione in generazione, accuratamente registrati nei testamenti e negli inventari delle eredità. Essi esibivano spesso orgogliose note di possesso e di trasmissione agli eredi, con le formule abituali «Questo libro è di […] e di sua discendenza». Al centro di queste piccole biblioteche (non più di venti, trenta volumi), il libro più importante era il Libro di famiglia, dei Ricordi o delle Ricordanze, in cui il mercante (oltre alle memorie minute della sfera economica) poteva diventare scrittore e autore, registrando la propria esperienza della vita e gli insegnamenti morali da lasciare ai figli e ai discendenti, e anche creando un’antologia personale delle letture preferite, nella forma dello Zibaldone. Dal momento che i libri potevano essere molto costosi, i mercanti avevano l’abitudine di copiarsi i testi per conto proprio da manoscritti prestati da amici o librai (era questo il caso di famiglie con cui lo stesso Leonardo sarebbe stato in contatto, i Benci, i Pucci, i Manetti). I materiali non erano lussuosi come quelli utilizzati per i libri destinati a signori e principi: carta invece di pergamena, e disegni tracciati dallo stesso copista a penna e acquerello, invece delle costose miniature eseguite da pittori professionisti.

Quali erano questi libri? I capolavori della moderna letteratura in volgare, le cosiddette “Tre Corone”, Dante, Petrarca e Boccaccio, e in particolare testi come la Commedia, il Canzoniere e i Trionfi, il Decameron. Poi alcuni libri religiosi e devozionali, come la Bibbia, il Fiore di virtù, le raccolte di exempla e i proverbi, le vite dei santi, le Sacre rappresentazioni, e alcune opere popolari di divulgazione filosofica e scientifica in volgare: il Convivio di Dante, il Libro de la compositione del mondo di Ristoro d’Arezzo, la Sfera di Sacrobosco. La letteratura contemporanea era rappresentata da romanzi e poemi cavallereschi (Andrea da Barberino, Antonio Pucci, Luigi e Luca Pulci), poesia giocosa (Burchiello), novelle e facezie (Franco Sacchetti, Piovano Arlotto, Poggio Bracciolini), cronache, storie, favole (Esopo), qualche autore antico volgarizzato (Ovidio, Lucano, Sallustio, Cicerone). Non poteva mancare, a casa di mercanti e banchieri, un buon libro d’abaco; e qualche grammatica elementare per imparare le litterae, cioè il latino, necessario per le professioni giuridiche e mediche. Sono questi i libri che, a casa di ser Piero a Firenze, avrà trovato il fratellastro di Leonardo, quel Lorenzo da Vinci “lanaiolo” a sua volta autore di due opere devozionali, il Confessionale e il Libro di patientia. Anche per Leonardo quei libri, così importanti per il padre Piero (notaio), il nonno Antonio (mercante), lo zio Francesco (anch’egli mercante “calzaiuolo”), sarebbero apparsi da subito come qualcosa di magico, di sacro. Il primo libro che appare nella sua opera è un libro sacro: il mirabile libro aperto che la Vergine sta sfogliando nell’Annunciazione.

Di più, quando il giovane Leonardo arrivò a Firenze, si trovò nel cuore del quartiere con la maggiore concentrazione di librai e cartolari, a ridosso del Palazzo della Signoria. La carta usata nei suoi primi disegni veniva tutta da qui. Tra 1467 e 1480 ser Piero abitava all’angolo tra via delle Prestanze e piazza San Firenze, con lo studio nel Palazzo del Podestà, e solidi legami con i monaci della Badia (dove fece predisporre la tomba di famiglia). A pochi metri, in via del Proconsolo, c’era stata l’impresa di Vespasiano da Bisticci, e nei dintorni si affollavano le botteghe di librai come Zanobi di Mariano (frequentata da Bernardo Machiavelli). Un po’ più avanti, all’ombra della cupola di Santa Maria del Fiore, la bottega del Verrocchio, nei locali che erano già stati occupati da Donatello. Nell’ambiente dell’oreficeria e della metallurgia, legati a Verrocchio e Pollaiolo, si formeranno anche i primi tipografi fiorentini (Bernardo Cennini e Filippo Giunta).

La prima sicura attestazione di libri letti da Leonardo, intorno al 1478, si trova su un enigmatico foglio del Codice Atlantico (f. 195r-v): una serie di brevi citazioni dalle Pìstole di Luca Pulci, dal Trionfo d’Amore di Francesco Petrarca, e soprattutto dalle Metamorfosi di Ovidio.

Sulla stessa pagina, un sonetto d’altra mano (coperto da una macchia d’inchiostro), in cui qualcuno (un allievo, un ex amico?) chiede perdono a Leonardo per una colpa misteriosa, forse aver messo in giro un’accusa o una maldicenza per fargli disonore (non era la prima volta: nel 1476, a seguito di una denuncia anonima, Leonardo era stato processato per aver praticato sodomia con un apprendista orafo). Le citazioni da Ovidio ruotano intorno al tema del tempo «consumatore delle cose», che con la sua fuga inesorabile domina il processo universale di metamorfosi che coinvolge gli elementi e le creature. In pratica, nella lettura delle Metamorfosi di Ovidio (portatrici di una concezione filosofica non lontana da quella espressa nel De rerum natura di Lucrezio, oggetto di riscoperta nell’Umanesimo) il giovane Leonardo comincia a formare la sua personale visione del mondo e della natura, basata sul perenne divenire. Un altro dato significativo che emerge dall’analisi di questo foglio è che Leonardo non sta traducendo dal latino, ma legge il volgarizzamento trecentesco di Arrigo de’ Simintendi da Prato, molto diffuso nel pubblico fiorentino contemporaneo. Si trattava sicuramente di un manoscritto, di cui viene riportato anche l’ex-libris: «questo libro è di Michele di Francesco Bernabini e di sua disciendenza».

Pochi anni dopo il passaggio da Firenze a Milano (1482), Leonardo decide di diventare uno scrittore, cioè un autore (o, come diceva lui, un «altore»). Non basta avere una certa padronanza della lingua materna, nella conversazione e nella scrittura: bisogna anche leggere, e molto. Comincia a cercare e a comprare i libri che ormai, nella nuova dimensione della stampa, si stanno diffondendo rapidamente, in molti casi più economici e più facilmente accessibili dei vecchi manoscritti. Milano, crocevia commerciale fra l’Italia e l’Europa per molte merci (tessuti e armi), ospita anche un vivace mercato librario, dove è agevole trovare incunaboli stampati altrove (soprattutto a Venezia), ma anche nelle tipografie milanesi attive da alcuni anni.

Gran parte dei libri di Leonardo sarà a stampa: incunaboli di formati e tipologie diverse, dalle piccole edizioni popolari, in quarto o in ottavo, di pochi fogli, ai grandi volumi in folio. Tra essi, alcuni dei più bei libri illustrati del Rinascimento (Valturio, il Fasciculo de medicina, la Cosmografia di Tolomeo). Questi libri riprendevano il rapporto tra parola e immagine esistente nella tradizione manoscritta alla fine del Medioevo, già ben familiare a Leonardo (negli zibaldoni di artisti e ingegneri del Quattrocento come Francesco di Giorgio, Taccola, Ghiberti). I loro apparati di immagini, a loro volta, erano fonte di ispirazione, e anche una sfida ad andare oltre, a migliorare la rappresentazione visiva con nuove invenzioni e scoperte (si pensi ai mirabili disegni vinciani di macchine o di parti del corpo umano).

I più importanti testimoni di questa svolta sono i due primi codici di Leonardo, il Manoscritto B (1485-1487 circa) e il Codice Trivulziano (1487-1490 circa), zibaldoni dedicati all’architettura, all’ingegneria civile e militare e all’urbanistica, ma anche basati su un nuovo rapporto con i libri e con gli «altori». Il Manoscritto B attesta la lettura di un libro appena stampato, il De re militari dell’umanista riminese Roberto Valturio, tradotto da Paolo Ramusio e pubblicato a Verona nel 1483, con un ricco corredo di tavole illustrative di macchine e strumenti bellici. Il trattato doveva interessarlo per il contemporaneo coinvolgimento come ingegnere (militare e civile) alla corte sforzesca, e poi perché mediava l’accesso a una cultura classica e umanistica alla quale Leonardo non poteva ancora avvicinarsi direttamente (si pensi alle citazioni di seconda mano da Lucrezio o da Virgilio); ma anche per la suggestione delle immagini, riprese in diversi disegni vinciani.

Nel Trivulziano Leonardo, seguendo il metodo derivativo proposto dal Landino per nobilitare il volgare, trascrive parzialmente un testo esemplare di quel metodo, il Vocabulista di Luigi Pulci, e poi lo estende alla compilazione di ampie liste lessicali tratte dai libri che si trovavano sul suo scrittoio: accanto al Valturio, riconosciamo così almeno due libri di letteratura d’evasione e satira della società contemporanea, il Novellino di Masuccio Salernitano e le facezie di Poggio Bracciolini. Sempre nel Trivulziano compare un breve elenco di libri da acquistare o da leggere: «Donato / lapidario / Plinio / abaco / Morgante».

Il primo nome corrisponde alla diffusa grammatica latina di Elio Donato, probabilmente nella versione semplificata conosciuta come Ars minor. Gli altri testi appartengono invece a un contesto letterario e naturalistico: il Morgante di Luigi Pulci, il lapidario, la Storia naturale di Plinio il Vecchio (tradotta in volgare da Cristoforo Landino e pubblicata nel 1476), e il libro d’abaco, fondamentale nell’apprendimento dell’aritmetica pratica negli ambienti mercantili.

Negli anni successivi, i documenti più significativi della biblioteca di Leonardo, oltre agli innumerevoli riferimenti (espliciti o impliciti) a libri e autori che si rintracciano nei suoi testi, sono le liste di libri, che ci danno la possibilità di seguire nel tempo le varie fasi di formazione e sviluppo. Si tratta di documenti provvisori e incompleti, redatti in fretta, senza troppa cura, e con finalità diverse: inventari di libri stesi prima di una partenza o di un trasloco; liste di testi da leggere, comprare o prendere in prestito, con indicazione delle biblioteche dove trovarli, dei «cartolari» che li vendevano, o degli amici che li possedevano. Le due liste più ampie corrispondono a due momenti chiave della vita di Leonardo: a Milano intorno al 1495, e a Firenze alla fine del 1503. Per intenderci, quelle date coincidono (non casualmente) con le due più importanti scommesse della sua carriera artistica: l’Ultima cena e la Battaglia di Anghiari.

L’elenco milanese presenta quaranta nomi di autori e titoli di libri. Sono quasi tutti in volgare, in gran parte a stampa, e appartenenti al campo della letteratura (profana e devota) e della linguistica (grammatica, retorica, manuali di stile). Lo scaffale scientifico e tecnologico è ancora modesto, e la raccolta rivela piuttosto una dimensione “letteraria”. Il grande libro sul mondo e sulla natura è sempre la Storia naturale di Plinio, cui s’accompagnano alcuni testi dell’immaginario tardomedievale come il Tractato delle più maravigliose cosse e più notabili che si trovano in le parte del mondo di Jean de Mandaville, i lapidarii, e le opere di Alberto Magno. La scienza dell’uomo va dal trattato di chirurgia di Guy de Chauliac (volgarizzato) agli opuscoli di medicina popolare e chiromanzia, il Tractato circa la conservatione de la sanitade di Ugo Benzi e il Libro tertio de lo Almansore chiamato Cibaldone, bizzarra raccolta di precetti dietetici e igienici. Per l’aritmetica ricompare il libro d’abaco, mentre per l’agricoltura è registrato il Libro della agricoltura di Pietro Crescenzi. Sullo scaffale religioso, accanto alla Bibbia, troviamo un salterio e due opuscoli morali, il Fiore di virtù e il De la immortalità dell’anima del frate domenicano Iacopo Canfora.

Nel campo della letteratura profana, Leonardo appare un appassionato lettore di poesia (l’Acerba di Cecco d’Ascoli, il Quadriregio di Federico Frezzi, il Morgante di Luigi Pulci, il Driadeo del fratello Luca, le Eroidi di Ovidio, Petrarca e Burchiello, e il misogino Manganello), e poi di racconti di ogni tipo, dalla grande storia (Livio, Giustino, la Cronaca d’Isidoro) all’aneddotica delle Vite de’ filosafi, dalle Facetie di Poggioalle favole di Esopo. Tutti testi tradotti in volgare, come anche i pochi esempi di letteratura umanistica contemporanea: il già ricordato De re militari del Valturio, e il De la honesta voluptate et valitudine di Bartolomeo Sacchi detto Platina. La quasi assenza del latino è compensata da qualche libro di grammatica e retorica: la grammatica elementare dell’Ars minor di Donato, il Doctrinale di Alexandre de Villedieu, il volgarizzamento della Rhetorica ad Herennium attribuita a Cicerone (e chiamata Rhetorica Nova nel Medioevo) e alcuni manuali di stile ed epistolografia.

Meno di dieci anni dopo, a Firenze, Leonardo scrive un nuovo elenco sui primi fogli del Codice di Madrid II (ff. 2v-3r). È la più ampia lista di libri che l’artista abbia redatto nel corso della sua vita: centosedici volumi preceduti dalle intestazioni «richordo de’ libri ch’io lascio serrati nel cassone», e «in cassa al munistero» (probabilmente Santa Maria Novella, dove nell’ottobre 1503 a Leonardo era stato concesso l’appartamento del Papa per lavorare ai cartoni della Battaglia). Sulla pagina successiva (f. 3v), un breve elenco di cinquanta «libri» di varie dimensioni, che possono essere i quaderni autografi di Leonardo, testimonianza dello stretto rapporto di contiguità con i libri della biblioteca.

Nonostante il carattere incompiuto e disomogeneo delle liste (non vi troviamo opere importanti che Leonardo sicuramente conosceva, come la Commedia di Dante, il De pictura di Leon Battista Alberti, il De architectura di Vitruvio), il confronto con l’elenco del Codice Atlantico rivela alcuni dati interessanti. Si conferma l’importanza dello scaffale letterario, con l’aggiunta di parecchi testi a quelli già registrati nel 1495. Un’attenzione non episodica è riservata alle favole di Esopo, in diverse edizioni che comprendono volgarizzamenti italiani e francesi e una riduzione in versi. Tra le forme metriche, prevalgono le ottave narrative del poema di Luca Pulci Ciriffo Calvaneo e della traduzione della Pharsalia di Lucano a opera di Luca Manzoli da Montichiello; in ottave è anche il fortunato Geta e Birria, riduzione dell’Anfitrione di Plauto attribuita a Filippo (ma in realtà Ghigo di Ottaviano) Brunelleschi e Domenico da Prato, un testo rappresentativo della tradizione popolare fiorentina a cui Leonardo sente di appartenere. In terzine era il De re militari di Antonio Cornazzano. Per la poesia, scompare Petrarca, resta Burchiello, e si aggiungono i Rithimi dell’aristocratico milanese amico di Bramante, Gasparo Visconti.

La narrativa in prosa, tra storia e racconto fantastico e mitologico, è rappresentata dall’Aquila volante attribuita a Leonardo Bruni (compendio di storia romana derivato da Lucano), dall’Atila flagellum Dei (sulla selvaggia figura dei re degli Unni), dal Guerin Meschino, e dai volgarizzamenti del Romulion di Benvenuto da Imola e delle Metamorfosi di Ovidio. Sullo scaffale dei novellieri è registrato il Novellino di Masuccio Salernitano (già schedato nel Trivulziano). Compare la Vita civile di Matteo Palmieri, importante trattato sulla formazione del cittadino e sulla vita associata a Firenze, che poteva provenire dalla biblioteca del Pandolfini. Presenza sorprendente è infine quella di un best seller europeo non tradotto in italiano, la Nave dei folli di Sebastian Brant.

Più ricco è anche lo scaffale delle grammatiche latine, dei manuali di stile e di retorica, dei vocabolari: strumenti che continuano ad avere una loro utilità per Leonardo alle prese con l’apprendimento faticoso del latino. In aggiunta ai titoli presenti nel 1495 troviamo i Rudimenta grammatices di Niccolò Perotti, un libro di Regulae latinae di Francesco da Urbino, la grammatica di Prisciano, le Regulae grammaticales di Guarino da Verona, il «Donadello» e il «Donato gramatico», le Varietates sententiarus seu synonima di Stefano Flisco da Soncino, gli Exempla exordiorum di Gasparino Barzizza, il Catholicon del Balbi, il Vocabulista ecclesiastico volgare latino di Giovanni da Savona, le Elegantiolae di Agostino Dati. Al già nutrito scaffale di epistolografia (Landino e Filelfo) si aggiunge il volgarizzamento delle Epistole de Phalari, cioè una raccolta di lettere falsamente attribuite ab antiquo al tiranno agrigentino Falaride, tornate di moda nell’umanesimo e tradotte sia da Giovanni Andrea Ferabos che da Bartolomeo Fonzio.

Tra i nuovi libri d’ambito religioso, il De civitate Dei e i Sermoni di sant’Agostino tradotti in volgare, un libro di prediche, san Bernardino da Siena, una Passione di Cristo (forse di Bernardo Pulci), un De tentatione, una Leggenda di santa Margherita, un Del tempio di Salamone, la Vita et li miracoli del beatissimo Ambrogio di Paolino Milanese, e un «libro dell’Amandio» che può rinviare a un’opera del mistico portoghese Amadeo Mendes da Silva.

La grande novità è il maggior peso della cultura scientifica e filosofica, ormai quasi la metà dei libri censiti, tra i quali aumenta anche il numero di quelli disponibili solo in latino. Autori e titoli rispecchiano l’allargamento degli interessi e delle ricerche di Leonardo alla fine del Quattrocento. Grazie all’incontro e alla collaborazione con Luca Pacioli gli è ora possibile accedere a una traduzione dei primi tre libri degli Elementa geometriae di Euclide, mentre si accresce la quantità dei libri d’abaco. Matematica e geometria dovrebbero fornire gli strumenti per una fondazione teorica del progettato Libro di pittura, e sullo sfondo resta la caccia alle opere di Archimede, evocato in sfide intellettuali come quella della «quadratura del circulo».

Nel campo della letteratura scientifica e medica Leonardo ha acquistato i testi che hanno avuto maggior diffusione nelle università e nel pubblico colto. Precisa dunque di possedere l’edizione latina del Fasciculus medicinae pubblicato a Venezia nel 1491. Altri testi medici sono il Tractatus de urinarum iudiciis di Bartolomeo Montagnana, il De natura humana di Antonio Zeno, gli Anatomice sive historia corporis humani libri V di Alessandro Benedetto, cui s’aggiunge anche un «libro di medicina di cavalli». Allo studio della figura umana è dedicato il Liber phisionomiae di Michele Scoto, ed è presente anche l’onirocritica, ampiamente diffusa nella cultura popolare tardomedievale, con l’essenziale manuale d’interpretazione dei sogni intitolato Sogni di Daniello.

Rilevante la presenza di Aristotele (i Problemata, le Propositiones e i Meteorologica, questi ultimi in un volgarizzamento fiorentino trecentesco ancora manoscritto e intitolato Metaura) e della tradizione aristotelica medievale (Alberto Magno, Alberto di Sassonia, Walter Burley). Il «libro di Giorgio Valla» può riferirsi all’opus maius dell’umanista, l’enciclopedia De expetendis et fugiendis rebus stampata da Aldo Manuzio a Venezia nel 1501, ma anche a una delle sue numerose traduzioni ed edizioni.

Per la conoscenza del mondo e del cosmo, Leonardo registra il possesso di trattati arabi di astrologia, Albumasar e Alcabizio (tradotto in volgare da Francesco Sirigatto), un opuscolo astrologico di Firman de Beauval (il De mutatione aeris), un «quadrante», la Cosmografia di Tolomeo, mentre lo studio parallelo delle acque e dei fluidi del corpo umano si avvale di una traduzione dei Pneumatica di Filone di Bisanzio.

Tra i testi tecnico-artistici, accanto alle opere di Leon Battista Alberti (il De re aedificatoria, i Ludi mathematici e il perduto De navi), compare il nome di «Francesco da Siena». Si tratta del grande ingegnere senese Francesco di Giorgio Martini, che Leonardo aveva conosciuto personalmente a Milano nel 1490, nelle consulenze per il tiburio del Duomo di Milano e per il Duomo di Pavia. In quegli anni Francesco lavorava a un ambizioso progetto di trattato di architettura. Si tratta di un’opera in progress, che passa attraverso due redazioni: la prima, compiuta entro il 1481 presso la corte di Urbino, al servizio di Federico da Montefeltro; e la seconda, negli anni Novanta. Tra le due stesure, Francesco tradusse anche il De architettura di Vitruvio, un testo fondamentale per il suo trattato.

Leonardo ha la possibilità d’incrociare quest’opera in entrambi i momenti della sua storia testuale, confrontandone almeno due manoscritti. Tra 1503 e 1504, nel Codice di Madrid II (ff. 85r-98r), riprende testi e disegni da un codice della seconda redazione, soffermando la sua attenzione sull’architettura militare, sull’uso dei materiali, sulle fondazioni marine e la difesa dei porti. È un momento in cui l’artista-ingegnere è impegnato, per conto della Signoria, nello studio del territorio della Toscana, e trova nel trattato di Francesco il migliore insegnamento sulla necessità di conformarsi alla conoscenza del «sito naturale», prima di progettare opere di ingegneria idrologica o militare.

Mentre trascrive i testi della seconda redazione, Leonardo ha a disposizione anche la prima, nel codice laurenziano Ashburnham 361, un manoscritto membranaceo di grandi dimensioni (385 x 265 mm), di cinquantaquattro carte scritte su due colonne e con numerose illustrazioni. È l’unico volume della sua biblioteca che sia stato finora identificato, perché reca una serie di postille, segni di lettura, disegni (in totale dodici: ff. 13v, 25r, 27v, 32r, 41r, 44v). Gli appunti nascono a stretto contatto con la pagina martiniana, e rivelano un confronto diretto con le idee dell’autore.

Alla fine della sua vita, Leonardo arriverà a possedere quasi duecento volumi: un numero straordinario per chi non era un professionista della cultura e delle lettere, come poteva esserlo un artista o un ingegnere. La sua biblioteca, aperta a tutti i campi disciplinari, rifletteva la visione di un mondo ancora fondato sull’unità del sapere e sulla circolazione delle conoscenze, prima del processo di divisione e specializzazione avviato nell’età moderna. Una biblioteca “d’uso”, al servizio dell’attività quotidiana di ricerca, in cui la lettura era orientata da interessi specifici. Leonardo non era un lettore passivo. Sottoponeva a una revisione critica e originale i testi con cui si confrontava, e li manipolava con grande libertà, senza farsi intimorire dai nomi illustri degli «altori». Le sue trascrizioni erano sempre riscritture, rielaborazioni, sintesi, “traduzioni”. La testualità, per Leonardo, era qualcosa di vivo, in movimento, come viva, nel tempo, appare la sua biblioteca, straordinario strumento di conoscenza aperto ai vari campi disciplinari in cui si ramifica l’inesausta curiosità del mondo[2].


[1] Archivio di Stato di Firenze, Notarile Antecosimiano, 16912, f. 105v.

[2] Si elencano qui di seguito, in ordine cronologico di pubblicazione, i testi consultati per la stesura di questo saggio: Govi 1872; D’Adda 1873; Duhem 1906-1913; Milano 1939, pp. 53-58; Marinoni 1944-1952; Belt 1949; Leonardo 1952, pp. 239-244; Garin 1961; Dionisotti 1962; Leonardo 1966, pp. 655-675; Heydenreich 1968; Reti 1968; Garin 1971; Reti 1972; Leonardo 1974a, III, pp. 91-108; Maccagni 1974; Solmi 1976b; Solmi 1976c; De Toni 1977; De Toni 1977-1978; Pedretti 1977; Bologna-Marinoni 1983; Marinoni 1987; Leonardo 1992, pp. 157-159, 345-405; Frosini 2006; Vecce 2006, pp. 157-159, 232-238; Villata 2009; Descendre 2010; Kemp-Pagiavla 2013-2014; Milano 2015a; Marmor 2016; Vecce 2017a.

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