Marta Questa: Il Monastero dello Spirito Santo a Firenze

Firenze possiede una miriade di spazi in penombra, attraversati da secoli di memorie sommerse, abitati da personaggi di cui merita portare alla luce il loro ricordo perché resti memoria di quello che hanno compiuto a favore del prossimo. Ritornare un po’ indietro nel tempo ci permette di poter raccontare di coloro che , anche se poco conosciuti, hanno contribuito a cambiare un po’ la storia ed a renderla migliore.

Era il 7 maggio 1937 quando  Leto Isidoro Maria Casini, ordinato sacerdote nel 1928, fu nominato parrocco della Chiesa di San Pietro a Varlungo che all’epoca contava circa duemila abitanti. Nell’ ottobre del 1943 fu incaricato dall’ arcivescovo Elia Dalla Costa di prestare assistenza agli ebrei, vittime delle leggi razziali, dichiarati nemici della patria e come tali, condannati allo sterminio.

Dal 1933 le cose erano molto cambiate. Mentre in quell’ anno Benito Mussolini in una intervista, concessa allo storico austriaco Ludwig, aveva lodato ripetutamente gli ebrei, qualificandoli come cittadini esemplari, tanto da affidare loro incarichi di alta responsabilità nella scuola , nell’esercito e nelle finanze ed anche nelle accademie, da lì a poco seguì  il voltafaccia, a seguito delle leggi razziali, emanate da Hitler a partire dal 1935,  e del patto d’ Acciaio del 1939 tra Regno d’ Italia e Germania nazista. In pochi anni da cittadini esemplari gli ebrei divennero indesiderabili, privati di qualsiasi posto di responsabilità ed in ultimo dichiarati ostili e nemici della patria. Ci fu tra di loro chi riuscì ad eclissarsi, ma tanti furono gli ebrei che, a partire dall’ otto settembre del 1943, a seguito della dichiarazione dell’ armistizio dell’ Italia, si riversarono in massa nel territorio italiano, sicuri che a breve sarebbe stato occupato  dalle forze alleate, lontani dal pensare che il paese sarebbe finito, come poi avvenne, sotto il controllo delle truppe tedesche.

Molti furono gli ebrei che giunsero a Firenze da paesi stranieri, non  conoscendo nessuno, né sapendo a chi rivolgersi per chiedere aiuto. La Chiesa fiorentina, guidata da Elia Dalla Costa, si prodigò a favore delle minoranze ebree presenti nella città. Fu proprio il cardinale che nell’ ottobre del 1943 convocò Leto Casini, allora sacerdote della parrocchia S. Pietro a Varlungo, invitandolo espressamente a far parte di un comitato per la ricerca di alloggi, di viveri e di carte d’ identità per mettere in salvo tutti i perseguitati ebrei presenti in città. Per fortuna la solidarietà e la carità non mancarono e molti enti sociali ed associazioni religiose offrirono il loro aiuto. Come informa Louis Goldman nel suo libro “Amici per la vita” un gruppo di donne ebree fu accolto a Firenze nella zona di Varlungo, nei pressi della parrocchia di San Pietro, nel  monastero vallombrosano dello Spirito Santo , edificio che nei secoli precedenti tutti avevano conosciuto come “villa la Funga o il Pratello” e che oggi è sede di un pensionato universitario.

Leto Casini era riuscito ad ottenere  l’ appoggio spontaneo della badessa che, spinta dalla gravità degli eventi, aveva accettato di accogliere il gruppo di donne ebree, decisione che neppure il cardinale Dalla Costa  avrebbe potuto imporle. Fu una scelta sofferta ed  indubbiamente difficile per lei, in quanto consapevole di infrangere le regole immutabili della clausura e di dover affrontare grossi rischi per sé e per le sessanta consorelle. Nascondere ebrei era considerato dai tedeschi un atto ostile, paragonabile al tradimento e punito spesso con la perdita della vita. Alla fine di ottobre del 1943 dodici donne  ebree furono ospitate nel monastero, tra cui una ragazza di tredici anni che aveva assistito impotente qualche mese prima alla cattura di sua madre e di sua sorella, trascinate via dai tedeschi. Occuparono stanze austere ma impeccabili  in un’ ala del monastero rigorosamente non  riservata alla clausura. Il 6 novembre del 1943 ci furono numerose operazioni da parte dei tedeschi di razzie e rastrellamenti contro gli ebrei.  Il monastero di Varlungo sembrò non essere più un luogo sicuro, ma Leto Casini ritenne opportuno lasciare il gruppo di donne in quella sede, non trovando altro luogo migliore. Pensarono opportuno nasconderle in una grotta sotterranea che si trovava fuori in giardino dove all’ estremità, vicino al muro che circondava la proprietà, c’ erano delle serre ed una costruzione con una riserva d’ acqua sul tetto; dietro a questa costruzione il terreno degradava e portava sottoterra ad una porta un po’ fatiscente oltre la quale, scendendo alcuni gradini, si apriva una specie di cavità con delle volte, provvista di  sedili di pietra allineati tutti intorno. Era usata come deposito di vasi da fiore e di arnesi da giardino. Tutto venne rimosso , furono  messi all’ esterno cumuli di paglia e letame  ammucchiati per camuffare. Le donne ebree lasciarono così le loro stanze al monastero ed andarono letteralmente sotto terra. Le suore misero una fila di piante davanti alla porta, che fu chiusa dall’ interno affinché nessuno sospettasse che degli esseri umani vivessero lì,  in una grotta. Dodici donne ed altri bambini, che si erano aggiunti, erano stipati in uno spazio di tre metri per sei, appena sufficientemente alto per stare in piedi. Non c’era sole che potesse illuminarli e scaldarli, non avevano acqua, né luce, non potevano uscire per paura di essere visti da abitanti negli stabili vicini. Stavano seduti in quelle panche di pietra e parlavano a sussurri per paura di essere uditi all’ esterno. Dormivano a turno sdraiati in questi sedili. Il freddo era terribile e l’ umidità raggiungeva indici molto alti. Erano assistiti anche dal trevigiano don Giovanni Simioni  che viveva presso il convento in una casetta indipendente  e dalle suore che provvedevano  a porgere loro un po’ di minestra, dei panini , cipolle ed un po’ di caffè per la mattina,  tanto erano allora scarsi gli alimenti. In quel periodo la carta annonaria dava diritto a soli trentatre grammi di grano a persona e c’ era chi lo macinava con macinino da caffè e con quel poco di farina faceva una “farinatina” integrale. Per fortuna, grazie all’ aiuto di Leto Casini e di alcuni agricoltori e  giovani donne di Varlungo, fu messo in funzione un mulino ad acqua che si trovava sopra Rovezzano. Lì veniva portato il grano raccolto nelle campagne intorno a Varlungo e da lì la farina veniva trasportata al forno del Bianchi, da cui uscivano filoni di pane profumato. Tutto ciò rese possibile, almeno per i primi tempi, la distribuzione di centocinquanta grammi di pane a testa tra la popolazione di Varlungo . Non erano molti, ma sempre meglio di prima. Le difficoltà quotidiane da affrontare erano tante ed i pericoli sempre in agguato, ma le suore del Monastero dello Spirito Santo di Varlungo seppero al meglio superarli ed affrontarli.  Nei mesi di giugno, luglio ed agosto del 1944 la situazione nella zona di Varlungo divenne di gran lunga più difficile. I  tedeschi provenienti dal  Valdarno Superiore attraversavano i borghi di Rovezzano e di  Varlungo in lunghe colonne di barrocci trainati da cavalli , di carri agricoli tirati da buoi, carichi di tutte le razzie fatte in case, ville e negozi lungo il loro percorso. Per non passare attraverso la città deviavano da Varlungo, prendendo via del Gignoro e via della Torre per poi dirigersi verso Ponte a Mensola e salire a Fiesole da dove, attraverso il passo del Giogo tentavano di varcare l’ Appennino per ritornare in  Germania. Il passaggio di queste colonne creava a volte reazioni tra i civili con conseguenti rappresaglie da parte dei tedeschi . Nonostante tutto questo le suore del Monastero dello Spirito Santo dimostrarono un grande e profondo spirito di solidarietà e di amore per il prossimo, incuranti del pericolo e prodigandosi  per mantenere in vita queste donne e bambini che in altro modo avrebbero corso il rischio di essere sterminati e che, invece,  grazie al loro aiuto riusciranno a ritornare alla fine della guerra nei loro paesi di origine ed a ricongiungersi con i loro familiari rimasti in vita.

Ma chi erano le monache del Monastero dello Spirito Santo?

Era un ordine monastico devoto di Sant’ Umiltà.  L’ ordine risaliva a  Rosanese Regusanti, una nobildonna nata a Faenza nel 1226, anno in cui morì S. Francesco d’ Assisi, ed ancora oggi venerata con il nome di  Sant’ Umiltà. A Firenze possiamo ammirare all’ interno del museo di San Salvi una sua raffigurazione della scuola fiorentina della prima metà del XVI secolo, e la chiesa San Michele a San Salvi conserva una statua marmorea, che la rappresenta, attribuita ad Andrea di Cione o Orcagna. Nella Galleria degli  Uffizi di Firenze è conservata un’ opera, composta di varie parti, un polittico  del senese Pietro Lorenzetti che la raffigura al centro con l’  abito dell’ ordine , un libro ed una foglia di palma, simbolo di gloria, con la testa coperta da una pelle di capra, emblema di umiltà ed accompagnata da una serie di storie circostanti con funzione didascalica, che narrano le vicende della santa dal momento in cui, ancora laica, decise di vestire l’ abito monacale, ai miracoli compiuti nel cenobio a Faenza, al suo viaggio a Firenze, dove nel 1282 fondò il monastero di San Giovanni Gualberto, allora fuori della cerchia muraria cittadina, fino alla sua morte ed alla cerimonia celebrata dal vescovo.   La giovane Rosanese Regusanti dopo il legame matrimoniale con Ugolotto Caccianemici e dopo la morte prematura dei due figli, entrò a far parte dell’ ordine delle monache di Santa Perpetua , una comunità cluniacense della città di Faenza, dove ricevette il nome di “Umiltà”. Durante il suo eremitaggio si  dedicò per molti anni alla preghiera ed alla contemplazione mistica sino a che fondò a Faenza una comunità monastica detta “La Malta”, cioè il fango, in quanto sorgeva fuori delle mura della città in un luogo ancora  paludoso.  Era entrata a contatto con la spiritualità vallombrosana  del fiorentino Giovanni Gualberto che, lottando contro l’ immoralità e le ingiustizie del suo tempo, aveva cercato di unire i messaggi dei  Vangeli con la regola benedettina dell’ “Ora et labora”. E così anche  Umiltà insieme alle donne aderenti all’ ordine conciliò la penitenza e  la vita monastica con  l’ assistenza ai poveri ed a tutti i bisognosi di aiuto senza alcuna distinzione. Gli stessi principi e regole metterà in pratica quando nel 1281, per espressa richiesta da parte delle autorità religiose, all’ età di 55 anni fonderà a Firenze, in una città allora scossa da lotte interne, un monastero per accogliere ed assistere giovani fiorentine . Il monastero fu costruito vicino all’ allora ponte sul Mugnone, nel popolo di San Lorenzo, presso quella che poi sarà chiamata “ Porta a Faenza”,  proprio dal nome del Monastero delle Donne della beata Umiltà di Faenza.  La pala di Pietro Lorenzetti , esposta oggi alla Galleria degli Uffizi, la raffigura china sul greto del Mugnone durante l’ azione simbolica di raccogliere “pillore” da costruzione e mentre compie i primi miracoli.  Accanto al monastero sorse poi anche la chiesa, consacrata nel 1297,  dove il corpo di Umiltà venne  conservato dopo la sua morte, avvenuta il 22 maggio 1310.

Oggi non rimane alcuna traccia né della chiesa né del monastero. Tutto fu distrutto per far posto alla Fortezza da Basso, costruita tra il 1534 ed il 1537 e dentro la quale venne incorporata l’ antica Porta a Faenza, di cui ancora oggi rimane il tracciato. Abbandonato il monastero, per le monache di Faenza iniziò un lungo pellegrinaggio : il gonfaloniere Raffaello di Girolami assegnò loro il monastero di Sant’ Antonio di Vienna, che sorgeva dove oggi si trova il palazzo dei Congressi; dopo qualche anno si trasferirono nel  monastero di Santa Caterina d’ Alessandria, detto anche  di Santa Caterina al Mugnone o degli Abbandonati, poi in quello di S. Antonio. A partire dal 14 agosto 1534, per volontà del papa  Clemente VII, furono nel convento vallombrosano,  che era stato fondato nell’ XI secolo  da San Giovanni Gualberto,  alla cui spiritualità Umiltà si era sempre ispirata, e che sorgeva accanto all’ antica chiesa di San Salvi. Nel 1817, in seguito ai grandi rivolgimenti politici,  determinati dalla rivoluzione francese , che ebbero tra le tante conseguenze anche  la soppressione degli ordini monastici e l’ incameramento da parte dello Stato delle loro proprietà, il convento di San Salvi passò al Granducato di Toscana . Il Cenacolo diventò sede di un museo che raccolse intorno al  celebre affresco di Andrea del  Sarto opere d’ arte provenienti in gran parte dalle chiese e dai monasteri soppressi della città di Firenze e del suo territorio.

Le monache  si ritirarono nel monastero posto su Costa S. Giorgio, nell’ antico convento dei frati agostiniani di Santo Spirito,  oggi sede della caserma di S. Giorgio e della scuola militare, dove restarono sino al 1866, vale a dire sino alla soppressione decisa dal governo italiano.  Nel 1872 la comunità delle Suore vallombrosane benedettine dello Spirito Santo, dette anche Donne di Faenza, fu trasferita a Varlungo, portando con sé il corpo di Sant’ Umiltà, e  dove lì accolsero nel 1943  quel gruppo di  donne e bambini ebrei, salvandoli dai campi di sterminio. A Varlungo rimasero sino al 1974, quando, a causa dei nuovi insediamenti e del traffico, il luogo non fu più ritenuto adatto ad accogliere una comunità di clausura e fu trasferito nel Comune di Bagno a Ripoli, sulle colline fiorentine, in una  originaria casa colonica, detta anche “Il Palagio a Baroncelli”, che è stata ampliata e trasformata in convento, dove ancora è custodito il corpo quasi intatto di Sant’ Umiltà e dove ancora oggi la preghiera e l’ assistenza sono le principali espressioni di questa emerita e non da tutti conosciuta comunità religiosa, che ogni anno rinnova il secolare culto di Sant’ Umiltà, facendo celebrare una significativa messa il 22 maggio, giorno della sua morte, avvenuta nel 1310.