La Stampa – 2 Settembre 1933
INDUSTRIE D’ITALIA
Empoli, il popolo, i vetri
Empoli, agosto.
Uno dei fatti più nuovi dell’Italia di oggi, è lo sviluppo delle industrie in paesi vecchi, e per esempio in Toscana. Lungi dallo sfigurarvi, donano all’ambiente e al paese, e anziché sopraffare il vecchio colore d’una vecchia vita, lo fanno risaltare meglio. Prima di tutto c’è lo spettacolo di come l’italiano si trasforma a contatto con la vita organizzata e collettiva, che non è dei meno interessanti: egli porta sempre qualcosa dell’artigiane; e poi la nascita dell’industrialismo in Italia non è quella cosa nuova e strami che s’è creduto per un pezzo. Al tempo del grande artigianato e delle vecchie corporazioni,, in quell’assetto industriale dei nostri vecchi tempi, le città ebbero centri nati da quell’assetto; poi divennero i musei di quel lavoro; noi l’Italia fummo abituati a considerarla così: si rimpiansero i più abili artefici e artigiani d’Europa, ma si torse il muso davanti ai fumaioli delle fabbriche. E quella fu invece l’Italia divenuta soltanto agricola che aveva abbandonato ogni ambizione civile. Nacquero perciò tanti monumenti senza scopo, che imitavano nell’apparenza le vecchie logge e i vecchi palazzi d’arte. C’era qualche cosa che era andato perduto, e cioè la capacità del lavoro a crearsi i suoi monumenti e le sue testimonianze, come l’avevano avuta un tempo i tintori o i lanieri, perchè in conclusione, come altrove « tout finit par des chansons ». In Italia tutto si concluderebbe in architettura e in arte.
Oggi e domani
Basta tuttavìa che la società sì organizzi su un dato schema, che ritrovi la sua attitudine naturale, perchè quella funzione torni in pieno. Non saranno più i palazzi della stessa arte; sarà un grattacielo, una torre, una colonia estiva, un campo dì gioco, e la vita si riannoda al vecchio filo, e questo lavoro senza volto, come era considerato il lavoro industriale, riprende il suo vecchio potere. Gli impresari cambiano, la tendenza è la stessa. E vorrei rivedere, fra molto molto tempo, quando si sarà finito di costruire, come si fa oggi per almeno un secolo di vita italiana, se molte cose non appariranno col colore di quelle d’un tempo, nate dallo stesso impulso e dalle stesse necessità. Vorrei vedere quante torri, quanti villaggi di collettività, quanti edifìzi adibiti alla vita collettiva non ricorderanno quell’assetto originale della vita italiana, e quanti edifizi dell’industria non rimarranno come monumenti. Corrisponderanno al palazzo della vita dei principati, a quello della prima formazione delle corporazioni delle arti, e a quelli che poi, quando finì ogni altra cosa, il genio popolare fondò in paesi che sono altrettanti monumenti d’architetture in dialetto; non sarà a ogni modo la vita isolata, privata, particolare, fella recente modernità dalla cui chiusura di vita venne fuori quel carattere incomunicabile e pauroso di certe città, conquiste straordinarie dell’individuo, vera epopea borghese, ma smarrimento d’ogni forma di vita solidale, e unita.
A Empoli mi accadde di pensare a queste cose davanti al suo vecchio Duomo.
I ragazzi giocavano in piazza, vi si attardavano donne coi bambini in braccio, una fontana ricorda la munificenza d’un signore che ha dotato la città d’acqua potabile, e sotto un calice di marmo grondante acqua, quattro donne di marmo sorridono nude. Non è più la nudità, d’un tempo, è già la nudità moderna che ricorda la camera da letto. Il popolo, intorno a questi nuclei antichi, vi aveva formati i suoi, fatti di botteghe sotto i portici, di vecchi caffè, di mescite di vino, d’insegne che avevano portato qualche cosa di artisticamente popolare nello zinco verniciato. E poi le merci sulla strada, questo mercato quotidiano che ricorda da vicina la vita, la sua lotta, la terra, il contado, i campi, i mercati. C’è un modo di disporre e di mostrare le cose del vivere che ha della composizione. Si starebbe delle ore qua, in mezzo, e si sonerebbe non so quante volte al richiamo di questo vino dal sapore di vecchie rose, di vecchi vasi. La razza vuol pur dire. Per chi detesta la spocchia di certa vita rivolta tutta a parere quel che non si è, queste osterie a ogni passo, che spengono l’arsura della strada polverosa, e i richiami delle trippe e della zampa, del mangiare semplice, è un meritato riposo. In mancanza d’altro, il popolo s’è fatta la sua decorazione per la vita quotidiana; ci sono i santi agli angoli, le insegne e le merci, e nulla è tanto eterogeneo che non entri in quest’atmosfera che è pur dura e di lotta.
Empoli è in piano. I fuori porta si vedono dalle sue strade dritte tra balenìi di biciclette che sì confondono con quelli delle foglie estive prese da un lungo tremito come se pullulassero, e la polvere, gli steccati gialli dì qualche campo sportivo, i manifesti che laggiù sono più larghi e coloriti, come se tutto questo fosse V annunzio d’ una fiera e d’un Luna Park. Si dilungano laggiù i quartieri degli operai, perchè Empoli ha, almeno una quindicina di fabbriche di vetri; i carrettini dei fiaschi da impagliare sono fermi davanti alle porte. Ora che è estate i vetrai son chiusi, ma sono arrivato in tempo, quando era fresco, a vederne alcuni ancora aperti.
Il grande nuovo articolo che preparava una vetreria, era uno spettacolo di partita di calcio. Su una tavola disegnata al modo dei campi di gioco, era. Su una tavola disegnata al modo dei campi di gioco, erano disposti i giocatori; la maglia di colore, la testa di vetro bianco; e il naso e lo stemma della loro squadra erano le cose più rilevanti. Era un gran magazzino di quelle manifatture: c’erano rose fiori e frutti di tutti i colori, vasi e lampade. La fragilità del vetro è una cosa di cui bisogna ricordarsi a ogni momento, abituati come siamo ad essere circondati da cose non fragili. A un certo punto viene quasi il pànico di quella estrema deperibilità. Ecco delle cose fatte per consumarsi, eppure esistono vetri di mille e duemila anni di vita, disseppelliti dalla terra dove hanno dormito per secoli. S’immagina quanti esemplari a migliaia, come quelli sopravvissuti, si sono rotti per uno che ha varcato il tempo. A un tratto questa di vetro mi sembra come una umanità: corre il mondo, accompagna la vita, viaggia, si ferma in qualche luogo. Passano i tempi, crollano monumenti di pietra, di alcuni non rimane che un ricordo vago, si disperde perfino la traccia della pianta d’una città, e questo bicchiere, questo pupazzo, questo vaso, ricordo della civiltà, della vita, appare in qualche lembo di terra.
Damigiane e fiaschi
Fuori, a perdita d’occhio, ci sono i depositi delle damigiane e dei fiaschi nudi, separati da muriccioli tra magazzini confinanti. Paiono strani orti di grosse zucche; i fiaschi si levano a pareti sotto le tettoie, con tutti i toni del verde. Tutto un mondo assai precario. Ancora una volta, penso per esempio a una grandinata su questi vetri. Ma in un altro magazzino chiuso, le oliere all’infinito, le bottiglie, di quelle cose che noi consideriamo come semplici forme nelle nostre case, qui acquistano quasi un aspetto di tribù; a momenti quelle oliere che sono come due sacchetti legati sembrano iena famiglia immensa di fratelli siamesi; altre oliere da trespolo, coi loro turaccioli, paiono delle bambine con la testina e il collaretto; e su questo tema, all’infinito, gli operai che limavano gli orli dei vetri con le macchine sembrava avessero da fare con un mondo infantile o nano, che si fosse moltiplicato allo stesso modo degli animali, per generazione, e le razze diverse erano i diversi colori d’ogni famiglia sotto le stesse forme. E i vasi per fiori, gli ornamenti dei salotti, aprivano bocche mostruose o sembravano pezzi d’anatomia. C’erano violente simpatie e antipatie: ognuno di quegli oggetti ricordava un ambiente, i comodini da notte, le avide bevute notturne nel bicchiere trovato a tastoni, la bottiglia della camera d’albergo, il bicchiere dell’osteria, le rotture in casa e il nuovo rifornimento di vetri, e gli ospedali, i cestini da viaggio. E si scorgevano vecchie forme, antichissime, della nostra infanzia, o di paesi visitati, o vedute in qualche museo, forme che furono dei Fenici, ripetute all’infinito da tanti anni e secoli, dietro l’ispirazione d’un artigiano ignoto che trovò, quella prima misura all’emissione del fiato nella canna. Oggi escono da ognuna di queste fabbriche trentamila pezzi di vetro comune al giorno e trecento di vetro artistico.
Un grande calamaio
E’ un lavoro che ha il carattere del trattenimento come in una scuola; il forno del vetro è un gran calamaio cui attingono tutti, e in circolo ognuno si dispone con la sua canna. E’ come se concertassero degli strumenti. Dev’esser la stessa l’emissione del fiato, tant’è vero che gli esemplari sono uniformi e fra l’uno e l’altro non v’è che un’oscillazione media dì venti grammi di peso. Il soffitto è altissimo, di travi e d’assi, come d’un’antica fabbrica o d’un’antica chiesa; il gruppo degli operai raccolto in mezzo, tra i potenti ventilatori e le finestre; su una tabella, col gesso, sono scritti i gli evviva e gli abbasso delle passioni quotidiane degli operai. C’è la solitudine del lavoro individuale e insieme un colore dì vecchia comunità, intenta a un lavoro che ha perfino del gioco, che è tutto dire per un’operazione delle più faticose. Ma forse in questo contrasto sta tutto il fascino di cotesto spettacolo. Soli e insieme, ognuno col suo grumo incandescente che passa attraverso tutti i colori e le forme, nasce come un frutto duro e imbozzacchito, si colora come una bolla, s’infiamma a mano a mano che prende aria; il ritmo delle canne lunghe disegna fra uomo e uomo, fra solitudine e solitudine, una coincidenza di linee e un gioco di rette ripetendo il ritmo convergente delle assi del soffitto: sembra un grande concerto che non arriva a esprimersi, altro che in forme rotonde, pressapoco come quella cornetta del jazz, che pare riesca a stento a gonfiare una palla di gomma ficcata nell’imbuto. Appeso in basso a una lunga canna, si gonfia come una nota profonda il bottiglione, mentre dall’altra parte le bottiglie striminzite e verdi da un quarto dì litro fanno un altro suono di questa musica acuto; lo stesso soffiatore è compreso di quel volume che nasce al suo fiato, come una pianta che sì vedesse di colpo ingrandire enormemente un frutto. In questa orchestra di forme, di cui non si sente a tratti che lo sgrigliolìo dello stacco del vetro, sta quasi da parte un lavoratore dì fino, che ha il privilegio d’un piccolo inserviente, l’aiuto d’un compasso di legno per le misure e per aprire e regolare le corolle del vetro. Il quale passa nelle sue mani attraverso tutte le forme, dal globo alla coppa, al piatto, come un riepilogo rapido di tutta una discendenza di volumi geometrici, sin che trova il suo. Il ragazzo vi aggiunge il piedino, il ragazzo stacca il dippiù, il ragazzo vi salda un ornamento, il ragazzo gli sta attorno come in uno di quegli esercizi perfetti di acrobazia che vediamo sui palcoscenici. E intorno tutto un coro è intento a sentir oscillare, gravitare, marmorizzarsi sotto il suo fiato le grandi bolle verdi. Astratti, in cima a un bastone bruciacchiato, i ragazzi portano al forno della tempera i recipienti finiti in cui aleggia ancora l’ultima fiammella e fa sprizzare scintille dal bastone. Ed ecco che le bottiglie stanno nel forno a indurire e sembrano pani.
Corrado Alvaro