Silvia Bottinelli: Paolo Pianigiani

Labitinti armonici

Labirinti armonici

Paolo Pianigiani e la sezione aurea

di Silvia Bottinelli

“Per trent’anni ho creato sempre la stessa opera”. Riccioli di fibra di vetro si ritagliano un loro rettangolo su tele monocrome. Il risultato è un raffinato gioco chiaroscurale, leggibile in tutta la sua eleganza con una luce radente.

Effetto che ricorda il bianco Castellani, ma meno regolare e ritmato. Paolo Pianigiani è alle prese con una ricerca infinita di perfezione geometrica e formale, concentrata su opere quasi seriali, ripetute con variazioni minime. Il suo punto di partenza è Piero Manzoni. Il Piero Manzoni degli Achromes, (1957- 58).

Ma se l’artista cremonese abbandonava i suoi effetti al caso, Pianigiani allontana con consapevolezza questa componente. Calcola accuratamente i rapporti matematici tra le parti di ogni sua tela: le aree increspate dalle onde di fiberglass e quelle lasciate piane sono in sezione aurea.

E’ una conquista passata attraverso i primi esperimenti del 1974, in cui i ricci radi si disponevano in un rombo ampio di toni screziati di rosa e, successivamente, invadevano tutta la superficie del dipinto monocromo.
Il lavoro di Paolo Pianigiani è dunque fondato sulla lunga ricerca di un assoluto matematico da trasporre sulla tela.

Ma si traduce, di fatto, in un paziente lavoro manuale. Per ottenere l’effetto brulicante che riempie i rettangoli interni delle sue opere, è necessario armarsi di pinzette e colla, modellare e fissare ad uno ad uno i segmenti di fibra di vetro sul supporto.

Una cura artigianale ben lontana dalla maniera di Manzoni.
Recentemente, Pianigiani ha tentato la via della policromia, ma è un esperimento che ha confinato alle opere su carta. Infatti l’uso di più colori sulle tele ucciderebbe la purezza degli effetti d’ombra.
Sul foglio, invece, il pennello traccia brevi curve di nuance diverse, stratificate su piani successivi. L’effetto ottenuto è omogeneo, pur essendo la risultante di componenti cromatiche varie.

Yves, di Grazia Bonomo

klein 2

POETICHE OCCIDENTALI E FILOSOFIA ORIENTALE:

YVES KLEIN

 di Grazia Bonomo

Prima uscita su www.transfinito.eu

Il cielo e la terra sono fusi nell’analogia dell’arte che avvia la sensazione a comporsi nella sfera dell’intelligibile e tende a quell’ultima perfezione in cui il contemplante scorge tutte le cose rispecchiate in se stesso.

Ananda K. Coomaraswamy

 

Premessa

In più occasioni Coomaraswamy, il grande studioso di arte orientale, si è espresso in termini di condanna nei confronti della prassi artistica occidentale, colpevole di tradire quella funzione analogica capace di fondere il cielo e la terra. Tale tradimento secondo Coomaraswamy non è recente e risale sino alla cultura rinascimentale, mentre nell’arte orientale – quella autentica non ‘contaminata’ dall’Occidente – ancora oggi troverebbe espressione l’originaria esperienza artistica umana, ovvero quella che egli definisce la lingua universalmente intelligibile delle idee basilari. In altre parole il tradimento occidentale è stato quello di un affrancamento nei confronti di un’arte intesa come canone religioso tradizionale e il conseguente progresso dell’espressione individuale e arbitraria dell’artista: dove è nato l’Artista con la A maiuscola è morta l’Arte con la A maiuscola. Il giudizio di Coomaraswamy nei confronti dell’arte occidentale è stato senza dubbio ingiusto, ma al di là di un integralismo chiaramente provocatorio non manca di fondamento. Peraltro  egli auspicava un nuovo raprochment tra Occidente e Oriente: un ritorno per l’Occidente a dei valori originari mediato dal confronto con la cultura orientale che ne è tuttora in parte portatrice: “Non che l’Asia possa servire da modello all’Europa: gli stili ibridi non sono che caricature delle forme autentiche, mentre un’assimilazione genuina di nuove idee dovrebbe e può sfociare in uno sviluppo attraverso forme completamente diverse da quelle originali.”[1]

  Continua a leggere

Lara-Vinca Masini: Tracce sull’io, la pittura di Tobia Ercolino

Tobia Ercolino, "Tracce", 2003

Tobia Ercolino, “Tracce”, 2003

Tobia Ercolino, "Tracce" 2003

Tobia Ercolino, “Tracce” 2003

Tobia Ercolino, "Tracce", 2003

Tobia Ercolino, “Tracce”, 2003

Tracce sull’io, la pittura di Tobia Ercolino

Prima pubblicazione su www.transfinito.eu

di Lara-Vinca Masini

Ho ritrovato, in questi giorni, una dichiarazione di Vincenzo Agnetti, certamente il più concettuale degli artisti italiani, che, con quella “consapevolezza infinita” che McLuhan attribuiva agli artisti, e che Beuys avrebbe allargato a “tutti gli esseri creativi”, mi sembra riveli in maniera esemplare, con una chiarezza quasi lapalissiana il concetto di “pittura” nel mondo contemporaneo: “Con la prima costruzione del quadro, o perlomeno di una cosa qualsiasi ritenuta tale, con l’io infilato nella materia senza alcun riferimento figurativo, l’inconscio veniva memorizzato nell’oggetto; il pittore insomma disumanizzava a suo modo nel tentativo di cedersi come pura energia” (in “Enrico Castellani pittore”, ed. A. Mauri, Milano 1958).

Cerco di rapportare questa straordinaria intuizione, che solo un artista è capace di cogliere (penso a quell’ “io infilato nella materia”, a “l’inconscio veniva memorizzato nell’oggetto”), a questo lavoro recente di Tobia Ercolino, a questi suoi grandi quadri interamente percorsi da una fitta scrittura, che fanno veramente pensare  ad una totale immersione dell’io nell’opera, attraverso il ritmo della propria fisicità, ritmo che non è quello tragico, viscerale, gestuale, di un Pollock, ma si realizza, attraverso, appunto, la propria scrittura, con un gesto che si trasforma in “segno”. Non si tratta, dunque, di una immersione istintuale, ma di un meditato, controllato, progettato riversamento di sé nell’opera. Ma mi ricordo anche che Wittgenstein, rifiutandosi di negare l’esistenza di “processi psichici” o “spirituali” nell’elaborazione del mezzo linguistico, ne parla come di “finzioni grammaticali”, profondamente radicate, peraltro, nella vita, “come lo sono le esperienze oniriche”. Continua a leggere

L’arte dei nativi australiani

01-Aborigeno

Tjukurpa, il Tempo del Sogno

Prima pubblicazione su Transfinito.eu

di Paolo Pianigiani

All’inizio il mondo era solo una pianura desolata e deserta, dove regnavano il nulla e l’oscurità.  Dal fondo della terra giunsero gli Antenati, esseri al di fuori del tempo, dotati insieme di natura umana, animale e vegetale, e iniziarono a vagare, cantando, e dai loro canti si formarono le montagne, i fiumi, le piante e tutti gli esseri viventi.  Terminato il loro viaggio, gli Antenati se ne tornarono nel profondo della terra, a godersi la gioia per quello che avevano fatto.

Ogni angolo dell’Australia, ogni grotta, ogni ansa di fiume, è un luogo sacro, perché ricorda un luogo dove l’Antenato ha lasciato il suo canto e ha portato la vita dove era il nulla.

Questo credono i nativi australiani, gli Aborigeni, e questo hanno tramandato dalla notte dei tempi, attraverso le pitture rupestri e i racconti intorno ai fuochi, dal momento che non conoscevano la scrittura.

Aborigeni… chissà perché li hanno chiamati così. Continua a leggere

Un convegno per Caravaggio a Empoli

Questo slideshow richiede JavaScript.

“Da Caravaggio, il San Giovanni nel Deserto Costa e delle sue copie”

Note a margine sulla giornata di studio 

Foto di Marcantonio Perugino

Articolo pubblicato su Emporium, n.1 Maggio 2015

di Paolo Pianigiani

Gli antefatti

Eravamo in pochi a conoscere quella antica copia, attaccata fuori squadra e dimora provvisoria chissà da quando, sull’altare della cappella che Tommaso degli Zeffi, sul cominciare del ‘600, si fece costruire in Santagostino. Quell’aggettivo dispregiativo, “copia”, che si tirava dietro, la condannava a perpetuo disinteresse e a un destino senza speranza. Eppure quella tela l’aveva portata ad Empoli, sua patria, monsignor Marchetti Giovanni, insieme alla biblioteca. Immensa e pesantissima, costituita in parte dalle tirature non ancora rilegate, andate per il presente invendute, dei suoi libri a sottofondo religioso.

I libri, con la giunta di alcuni quadri, anche loro a carattere religioso, arrivarono probabilmente per navicello, provenienti da Roma. Da quelli gli empolesi ci tirarono su la loro biblioteca pubblica, che si doveva chiamare di San Giovanni, in perpetuo ricordo del suo fondatore Giovanni Marchetti e contenere di conseguenza nella sala grande (l’attuale sala delle conferenze del Comune, la ex mensa degli Agostiniani) in bella vista proprio il San Giovanni nel Deserto di Michelangelo da Caravaggio. Non sappiamo dove i prelato empolese si procurasse il dipinto. Sappiamo che in quegli anni, esattamente nel 1802, un emissario del Re di Napoli Ferdinando di Borbone acquista una versione simile dello stesso soggetto, che Roberto Longhi giudicherà originale. Ma una cosa è certa, come ci ha spiegato Walfredo Siemoni, organizzatore del Convegno, nel suo intervento: il nostro Monsignore era convintissimo di essersi portato a casa un’opera autentica. E ci ha detto il perché: di altro quadro, più piccolo e devozionale, una Madonna Annunziata, il Marchetti ha lasciato scritto nel suo testamento che si trattava di un Guido Reni, ma forse, come gli avevano detto “altri intendenti” era di  Elisabetta Sirani. Quindi se avesse avuto qualche dubbio, lo avrebbe detto. Continua a leggere

Lorenzo Bonini a Empoli. Conferenza di Walfredo Siemoni

Lorenzo Bonini: pittore e dissegnatore è il titolo della pubblicazione di Valfredo Siemoni, arricchito dalle presentazioni di Bruno Santi e Cristina Gnoni, che sarà presentata domani 9 luglio 2015, alle ore 18.00,  presso la Chiesa di S. Maria a Ripa

Siemoni invito  bonini

Nel breve saggio l’autore, partendo dall’unica opera certa riferibile a Lorenzo Bonini – le lunette francescane nel loggiato di santa Maria a Ripa, datate 1601 – riferisce al pittore fiorentino anche il limitrofo ciclo con i Dottori della Chiesa nella cupola dell’Oratorio dell’Immacolata Concezione e, sempre per via stilistica, l’affresco col Battesimo di Cristo nella prioria di san Michele a Pontorme

In questo primo gruppo di affreschi spicca la grande osservazione naturalistica derivata al Bonini dall’aver lavorato a Bologna, alla fine del Cinquecento, presso il noto scienziato Ulisse Aldrovandi, illustrandone la ricca collezione ed eseguendone il ritratto su tela.

Inoltre Siemoni riferisce sempre a Bonini gli affreschi staccati provenienti dalla facciata del  “Palazzo Ghibellino” in piazza Farinata degli Uberti, di proprietà della Cassa di Risparmio di Firenze, rintracciandone la committenza e svelandone i temi rappresentati che nulla hanno a che vedere con l’episodio medioevale di Farinata, contribuendo in tal modo ad ampliare la conoscenza del vasto patrimonio artistico conservato nel territorio empolese.