Walfredo Siemoni, Giovanni Marchetti collezionista e connoisseur

Walfredo Siemoni

Walfredo Siemoni in una recente conferenza

Molti anni fa, nel 1990 per l’esattezza, eseguendo una ricerca commissionata da monsignor Giovanni Cavini sulla Collegiata di sant’Andrea, in occasione del primo, sistematico, spoglio dei materiali raccolti presso tale archivio, mi imbattei in un’interessante notizia riguardante le ultime volontà di Giovanni Marchetti, arcivescovo di Ancira, in seguito pubblicata in una breve nota sul Segno di Empoli (1). Il lungo ricordo, datato 23 novembre 1829 e pertanto a pochi giorni dalla scomparsa del prelato, è contenuto nelle deliberazioni del Capitolo di sant’Andrea, beneficiario della donazione dell’intera raccolta libraria del Marchetti, il quale in una postilla ricorda “il mio quadro di Michel Angelo da Caravaggio rappresentante san Giovanni Battista che predica nel deserto, (che) dovrà collocarsi di prospetto nella prima stanza sopra gli scaffali dei libri, per segno e supplica della Sua special protezione del luogo che ne prenderà anche il nome e si chiamerà la Libreria di san Giovanni Battista, unendo così la memoria eziandio dell’offerta e dell’omonimo fondatore. Il luogo prescelto era il da poco soppresso convento dei fiati agostiniani e, più precisamente, il vasto refettorio decorato non molto tempo prima da Alessandro Masini.

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Bernard Berenson sul Caravaggio: delle sue incongruenze e della sua fama

Bernard Berenson,nel 1903, a villa i Tatti, Firenze

Bernard Berenson, nel 1903, a villa i Tatti

Da:

Del Caravaggio

Electa Editrice, Firenze 1951

Pagg. 32 – 33

“Questa volta mi occuperò del Caravaggio.”

Così inizia questo volume, uscito nel 1951, dove il grande critico americano si incontra e si scontra con Michelangelo Merisi, e quindi con i giudizi di Roberto Longhi, che di Michelangelo da Caravaggio fu il primo scopritore. E, come noto, il più grande esegeta.

Riportiamo un brano dove si parla del San Giovanni Battista che si conserva a Napoli, al museo Nazionale. “Fratello” della copia empolese, recentemente restaurata.

La redazione

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Caravaggio, San Giovanni Battista, Napoli, Museo Nazionale

Caravaggio, San Giovanni Battista, Napoli, Museo Nazionale

Altre varianti esistono di seminudi in figura di Bat­tista: una sola merita d’essere mentovata qui. Ne ab­biamo due versioni, una a Napoli, l’altra — superiore e probabilmente l’originale — in vendita sul mercato londinese (la riproduce Longhi in Proporzioni, 1, fi­gura 18). Il Battista vi appare più adulto; siede ancora diagonalmente come nel quadro Spada, siede e rimu­gina; siede in uno spazio astratto, lo splendido corpo emergente in luce fra le tenebre.

Il contrasto fra questi giovani, ora atteggiati a medi­tabondi, lugubri Battisti, ora in figura di Bacco, seduce a dar loro un’interpretazione alla Walter Pater, il Pa­ter che scrisse l’Apollo in Piccardia e il Denis de l’Auxerrois. Invito il Warburg Institute ad applicare i suoi metodi a questo problema.

Il trapasso da questi aggrondati giovani Battisti al David della Borghese va da sè. Egli ci appare amara­mente infelice mentre brandisce la spada e stringe in pugno la chioma di Golia. Giovanissimo, ma non più ragazzo, sembra afflitto ed esitante, forse spaventato di ciò che ha fatto: comunque un inquieto, malsicuro vincitore. Nel Golia si dice che il Caravaggio ritraesse se stesso — ma di ciò più tardi. Il giovane corpo rilu­cente balza fuori da una picea oscurità in un isolamento assoluto. Ma quale testa e torso e braccio – degni di Lisippo!


DOPO CARAVAGGIO. IL SAN GIOVANNI BATTISTA COSTA E LE SUE COPIE

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Sabato 11 aprile si terrà una giornata di studio, la quale si snoderà lungo l’intera mattina per concludersi nel primo pomeriggio, incentrata sul restauro del San Giovanni Battista nel deserto, restauro felicemente conclusosi in questi giorni, fortemente voluto dalla Venerabile Arciconfraternita di Misericordia  tramite l’opera dei suoi Governatori, Giovanni Pagliai che commissionò il lavoro alla restauratrice Sandra Pucci in accordo con la Soprintendenza fiorentina tramite il funzionario di zona, Cristina Gnoni, e Pier Luigi Ciari che ne ha proseguito l’opera.

Fedelmente ad una linea di tutela e valorizzazione del ricco patrimonio conservato nella splendida chiesa di Santo Stefano, in cui la tela ebbe a confluire grazie alla donazione di monsignor Marchetti nel 1823, l’iniziativa si inserisce nel più vasto programma di valorizzazione della chiesa agostiniana per cui la Misericordia cittadina, oltre a garantirne l’apertura,e quindi la fruizione, di quello che a ragione può essere considerato uno dei monumenti maggiormente significativi tra quelli presenti nel nostro territorio, sta progressivamente provvedendo a restaurare i non pochi arredi bisognosi di interventi di recupero. Dopo l’affresco cinquecentesco ed i due antichi crocefissi in legno policromo, è toccato a questa tela, copia di un originale dipinto a Roma nel primo Seicento da Michelangelo Merisi da Caravaggio, in questo caso col significativo contributo della sezione locale del Rotary. Basterà riflettere brevemente su come il nostro territorio, per quanto ricco di preziose quanto storicamente variegate presenze artistiche, risulti per altro mancante  di opere legate al Merisi o alla sua cerchia (eccezion fatta per la grande tela del senese Rutilio Manetti anch’essa nella medesima chiesa) per comprendere come una simile occasione legata alla presentazione dell’avvenuto restauro non poteva essere trascurata ma anzi doveva necessariamente essere valorizzata e portata all‘attenzione della comunità degli studiosi internazionali. Continua a leggere

John T. Spike: Caravaggio

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La scheda:

Saint John the Baptist, c.1604

Oil on canvas, 68 x 52 (172.7 x 132.1 cm) Nelson–Atkins Museum of Art, Kansas City

Provenance: Ottavio Costa, Rome, by 1639; bequeathed to his grandson, Filippo di Benedetto Costa (d. 1683); by descent to his brother Pietro Francesco Costa (d. 1723); awarded (?) as part of his patrimony in 1705–10 to the Order of Saint John of Jerusalem, Malta; purchased in Malta by James, fifth Lord Aston of Forfar  (d. 1751), conserved at Trixhall, Straffordshire (England);  by descent  to the second daughter, Barbara, who married Thomas Clifford; by descent to their son, Sir Thomas Hugh Clifford (1762–1829) whoin herited Trix hall and estates of Burton–Constable, Yorkshire; 1844 contents of Trixhall were transferred to Burton-Constable, Hampstead; by inheritance to Mary Barbara Clifford–Constable (d. 1876) who in 1826 had married Sir Charles Chichester; by 1923 in the collection of Chichester  Constable, at Burton Constable, Hampstead; in 1951consigned by Raleigh Charles Joseph Chichester–Constable to antiquaries Edward Speelman and Geoffrey Agnew; 1952, London, Thomas Agnew & Sons, Ltd., from which acquired 1952.

Inventory: 1. January 18–24, 1639 inventory of the estate of Ottavio Costa: “And another painting with the image of Saint John the Baptist in the desert made by the same Caravaggio” (Spezzaferro 1974, pp. 582 n. 22, 585; Spezzaferro 19752, p. 118; Rowlands 1996, p.223).Exhibitions: London 1950, p. 130, no. 323; Milan 1951, no. 23 (as Caravaggio); Seattle 1962, no. 62;Detroit 1965, no. 3; Cleveland 1971, no. 17; New York–Naples 1985, no. 85;Tulsa–Kansas City 1995–96, no. 1.

Bibliography:

Longhi 1943, p. 15, fig. 18 (published as original of which Naples was copy); Ainaud1947, pp. 388–89; Longhi in Milan 1951, no. 56  (1598–99); Arslan 1951, p. 446 (“oldand quite beautiful copy”); Berenson 1951, pp. 33, 46; Longhi 1951, p. 30 (late 1590s);Mahon 1951, p. 234 (as no. 23, 1603–4) Venturi 1951, p. 41 (no); Baroni 1951; Longhi1952, no. XXIII (c. 1600); Mahon 1952, p. 19 (as no. 23, 1602–4); Hinks 1953, pp. 71–72,no. 37 (c. 1603); Mahon 1953, p. 213 (c. 1602–4); Baumgart 1955, no. 29 (c. 1598–99);Friedlaender 1955, pp. 171–72 no. 20D (c. 1602, possibly even later if picture describedas in Caravaggio’s possession, confiscated at his death); Wagner 1958, pp. 106, 108–9(1602–4); Berne Joffroy 1959, pp. 260, 333, 339, 374 (1602–4); Della Pergola 1959, p. 79;Jullian 1961, pp. 149, 151–53 (c. 1604); Moir in Detroit 1965, no. 3; Guttuso–Ottino della Chiesa 1967, no. 55 (1603–4); Moir 1967, I, p. 256, II, pp. 57–58 (1604–5); Kitson 1969, no. 53; Matthiesen–Pepper 1970, p. 456; Cinotti 1971, pp. 128, 195 (1604–5);Spear 1971, no. 17 (c. 1604–5); Frederickson–Zeri 1972, pp. 44, 417, 589; Slatkes1972, p. 67; Marini 1974, pp. 160–61, 386–87, n. 38 (1600); Spezzaferro 1974, pp. 584–85 (identifies with 1639 Costa inventory); Moir 1976, pp. 97 no. 27, 130 n. 27;Nicolson 1979, p. 33; Wright 1981, p. 2; Moir 1982, pp. 124, 134, pl. 31 (c. 1605); Cinotti 1983, no. 21; Freedberg 1983, p. 53; Hibbard 1983, pp. 191–93, 319–20 n. 126 (summer1605); Marini 1983, p. 132; Gregori 1985, no. 85 (1604–5); Spike 1985, p. 417; van Tuyll1985, p. 487; Calvini 1986, pp. 343–86; Christiansen 1986, p. 438 (many incisions, red mantle originally extended farther to the right); Tempesta in Rome 1986, p. 35;Bologna 1987, p. 162; Calvesi 1987, pp. 108, 118–20; Christiansen 1988, p. 26 n. 2;Rotondo 1988, pp. 27, 108; Gregori 1989, pp. 116, 120; Marini 1989, pp. 468–69 no. 54(Rome, 1603–4); Calvesi 1990, pp. 243, 424 (1604–6); Gilbert 1990, p. 59; Cinotti 1991,pp. 119–20; Ward 1991, p. 156 (1604); Bologna 1992, p. 318 (c. 1601); Gregori 1994, p.150, no. 45 (1603–4); Gilbert 1995, pp. 2–34; Ward in Tulsa–Kansas City 1995–96, pp.6–19, no. 1 (1604–5, probably retained by Costa in Rome and a copy sent toConscente); Rowlands 1996, no. 25 (most extensive discussion; c. 1605); Puglisi 1998,no. 49 (c. 1603–5); Robb 1998, p. 509 (1604).This Saint John the Baptist failed to attract the notice of the Roman sources althoughit is a fine and characteristic work of around 1604. Its identification with a Saint John the Baptist cited in the 1639 inventory of Ottavio Costa seems assured by the existenceof a faithful copy in Albenga (c.1), where the Costa family owned properties. The lat-ter copy was originally in the Oratory of Saint John the Baptist in Conscente, a near by fiefdom of the Costa family. Circumstantial evidence cited by Rowlands (1996, p. 219)tends to support the hypothesis that a new altarpiece of John the Baptist, probably  a copy of this picture, was sent from Rome between 1603 and 1606. See text p. 158, illustrated at p. 159.

Condition: Good, apart from the regrettable loss of final glazes due to overcleaning in the past. The lack of transitions between the light and shade on the saint’s calf and ankle aresymptoms of this overcleaning. Radiography revealed a large pentimento in the red mantle which originally extended all the way to the right-hand margin of the painting. Numerous incisions around the model’s head and legs were noted by Spear (1971) and Christiansen (1986). The ground is reddish brown. See Rowlands 1996, p. 215, for a more detailed discussion.

Copies: Selected copies are listed by Rowlands 1996, p. 223. Among  these are: c.1 Albenga, Italy, Museo Diocesano, Oil on canvas, 67 x 545/8 in. (170 x 107 cm) Provenance: Chapel of San Giovanni Battista, Conscente, built by Abbott Alessandro Costa in 1588, rebuilt by the Costa brothers (one of whom, Ottavio, was a patron of Caravaggio) between 1596 and 1606; church of Sant’Alessandro, Conscente; by 1615 in Oratory.

Inventories:

Matthiesen and Pepper (1970) identify this copy with a painting of this subject in two inventories:1. 1615 inventory of the paintings in the Oratory of the church of Sant’Alessandro,given by its patrons, the Costa family, unidentified by artist, “a large painting sent from Rome of Saint John the Baptist.”2. 1624 inventory of the same church describes as in the “small oratory . . . a Saint Johnthe Baptist in the desert weeping over human misery painted by the celebrated painternamed Michel Angelo Caravaggio” (Gregori, 1985, p. 303). Bibliography:Matthiesen and Pepper 1970, p. 456; Spear 1971, p. 75 (discovery of copy suggestedKansas City picture probably commissioned by Ottavio Costa); Spezzaferro 1974, p.585 (connects provenance to Kansas City picture); Moir 1976, p. 97 no. 27b (copy); Gregori 1985, p. 302; Gilbert 1995, p. 108; Ward in Tulsa–Kansas City 1995–96, pp.6–19, fig. 5; Rowlands 1996, p. 223, fig. 25c (copy).To judge from a photograph, the mediocre quality of this copy militates against a dateas early as 1603. The possibility should not be excluded that this painting was made toreplace the Caravaggio copy that was sent from Rome to Conscente between 1603 and1606. The excellent copy in Naples is an example of a version that could be contemporary to the original composition in Kansas City.c.2 Naples, Museo Nazionale di Capodimonte; inv. 420 (Q.370)Oil on canvas, 673/4 x 515/8 in. (172 x 131 cm) Provenance: Purchased in Rome, 1802, as work of Bartolomeo Manfredi; T. Conca collection, Naples.

Bibliography:

Longhi 1927, p. 31 (previously described as Manfredi  or Riminaldi, possibly copy of lost Caravaggio); Mariani 1930; Longhi 1943, p. 15 (copy); Berenson 1951 [1953 ed.],p. 32 (version); Friedlaender 1955, pp. 171–72 (Manfredi); Guttuso–Ottino della Chiesa1967, at no. 5 (copy); Moir 1976, p. 97 no. 27a (copy); Ward in Tulsa–Kansas City1995–96, pp. 6–19, fig. 6 (copy); Rowlands 1996, p. 223, fig. 25b (copy).


Roberto Longhi, il San Giovanni Battista per Ottavio Costa

Michelangelo Merisi, il "San Giovanni Battista Costa", Museo

Michelangelo Merisi, il “San Giovanni Battista Costa”, Museo Nelson-Atkins Museum of Art, Kansas City. Circa 1604

Da Roberto Longhi, Caravaggio.

Editori Riuniti, 1993

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La polemica fu poi al colmo nella interpretazione del «San Giovanni Battista» di casa Doria, dove uno dei nudi di Michelangelo nella volta Sistina, visto in controparte, è bensì vitale, prensile come nell’originale, quasi il Caravaggio ammettesse che cosi talvolta ci appare anche il vero; ma decidesse che, per immergerlo nella realtà naturale, occorre «macinarne la carne» e interromperlo con i traversoni macchiati dell’ombra. E può essere che la motivazione antinomica rimanga troppo palese. Continua a leggere

Ugo Procacci: Sinopie e Affreschi a Santagostino.

Ugo Procacci in una foto di Cecilia Frosinini del 1978

Ugo Procacci, foto di Cecilia Frosinini, 1978

Una delle cappelle che presenta i maggiori problemi di lettura, fra quelle ancora perfettamente conservate a Santagostino,  è quella di Sant’Elena, la cappella affrescata da Masolino nel 1424 e riscoperta da Ugo Procacci nel 1943. Nel suo ormai quasi introvabile “Sinopie e Affreschi”, edito nel 1960 per i tipi della Electa Editrice, parla diffusamente del suo ruolo nella riscoperta delle sinopie di Masolino, che erano rimaste sotto lo scialbo voluto dai frati Agostiniani, che preferirono un “colorino galante”, alle pitture di uno dei maggiori artisti del Quattrocento fiorentino. Queste sinopie, che furono staccate ed esposte nel 1957, alla grande mostra di Forte Belvedere a Firenze, di cui questo libro costituisce il catalogo e la testimonianza, da troppi anni sopravvivono allo scorrere del tempo e delle sue ingiurie. In pratica sono quasi scomparse. Il ricordo di Masolino va a morire, nonostante le lampade che cercano disperatamente di ritrovarne i contorni.

Ma per nostra fortuna in questo straordinario volume le sinopie sono presenti, fotografate benissimo, pur con le apparecchiature di allora.

Ve ne proponiamo alcune, insieme al commento del grande studioso fiorentino..

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Tavole 62-69

Masolino da Panicale: Cristo portacroce e Storie della Vera Croce (sinopie) – Empoli, S. Agostino.

Le sinopie di Masolino da Panicale, nella cappella del­la S. Croce in S. Stefano di Empoli, furono rinvenute, da chi scrive queste note, nel 1943 in seguito a ricerche fatte in base a documenti. Questi ci facevano in­fatti sapere che la cappella — della cui ubicazione si era perduto il ricordo — era stata affrescata da Masolino per la somma di settantaquattro fiorini d’oro, e che era stata finita di dipingere, con ogni probabi­lità, il 2 di novembre del 1424. Purtroppo degli affre­schi — se si fa eccezione di alcuni compassi con Santi a mezza figura, nell’intradosso dell’arco di ingresso, e di due bellissime teste muliebri negli sguanci della finestra — nulla è rimasto, perché nell’agosto del 1792 i frati dell’annesso convento, riuniti capitolarmente, deliberavano con sei voti favorevoli e uno contrario, di … scortecciare, stonacare e rintonacare di nuovo… quando non si creda che faccia pregiudizio e dispiacere al pubblico il demolire le pitture grossolane e di niun pregio ivi esistenti, e così rintonacato il muro darli un fondo di un colorino galante… A compensare in parte tanta perdita, sono ora tornate alla luce le sinopie delle distrutte composizioni (Cat. 13, 16-19) le quali, oltre che costituire un prezio­sissimo documento per la conoscenza dell’arte di Masolino, possono veramente essere annoverate tra le più belle a noi pervenute del primo Quattrocento. Le figure e le cose vi appaiono eseguite a solo con­torno, salvo qualche raro accenno di ombreggiatura; ma le linee sono sempre nette e sicure senza alcun pentimento, e le composizioni, anche se alcune volte accennate appena con pochi tratti, magistralmente concepite, in una chiara distribuzione degli spazi; ovunque poi domina quella sensibilità delicata e si­gnorile che rende sempre di una bellezza inconfon­dibile e di gran fascino le pitture di Masolino; non di rado si giunge infine al capolavoro. Si veda così la fragile figura del Cristo portacroce che sembra evocare — e siamo invece nel 1424 — ricordi angelichiani (tav. 62), o il Redentore sorgente dal sarcofago (tav. 63), o il giovanile Santo guerriero di un’assoluta purezza di linee nella sua cristallina sem­plicità (tavv. 68 e 69); si guardi la sapienza con cui è composta la scena della prova della Vera Croce, strettamente collegata al corteggio, purtroppo in par­te svanito, di S. Elena e del suo seguito verso Geru­salemme (tav. 67); ecco la regina di Saba inginoc­chiata con la sua corre davanti al ponticello sul fiume Siloe (tav. 65) ed Eraclio addormentato nella propria tenda (tav. 64) vigilata dai soldati, di ben altra ef­ficacia, pur nella simile composizione, dell’analoga scena negli affreschi di Agnolo Gaddi in S. Croce. Ed infine, a concludere la sacra leggenda, la decapi­tazione di Cosroe (tav. 66); una sequenza veramente meravigliosa, che però, proprio per questo, non può non farci ancor più amaramente rimpiangere la scom­parsa dei corrispondenti affreschi.


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Tavole 70 e 71

Masolino da Panicale: Decapitazione di S. Caterina (sinopia e affresco) – Roma, S. Clemente.

Molto più studiate ed elaborate di quelle di Empoli — l’artista operava ora per la corte papale — ci ap­paiono le sinopie che Masolino eseguì a Roma in S. Clemente, affrescando nel 1428, o poco dopo, una cappella per il cardinale Branda da Castiglione. Non si ha più ora, sia nella Crocifissione — per le parti che appartengono al nostro artista (Cat. 20) — sia nella bellissima decapitazione di S. Caterina, il dise­gno tracciato solo nei contorni, ma anche ombreggiato e chiaroscurato per mettere in risalto il rilievo delle figure; però, nonostante questo cambiamento tecnico, lo spirito che anima composizioni e personaggi è lo stesso: e così il carnefice di S. Caterina a Roma non può non richiamare subito alla mente il carnefice di Cosroe a Empoli.

Qualche cambiamento fu apportato dall’artista nel passaggio dalla sinopia all’affresco; il più notevole si ebbe nella figura della Santa in attesa del colpo di spada che le troncherà la vita: ora è in ginocchio, in preghiera, e non più, come nel disegno, accasciata a terra, in posizione succube, che forse non piacque, preferendosi un più altero comportamento di fronte al martirio; ma la prima invenzione di Masolino era, dal lato artistico, più perfetta.


Walfredo Siemoni, La Compagnia della Croce a Empoli

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La Compagnia della Croce a Empoli

di Walfredo Siemoni

Dal Vol. VII, n. 3-4-5-6 1978/1979

Del Bullettino Storico Empolese

La Compagnia della Croce era una delle tante confraternite laicali sorte spontaneamente nel XIII-XIV secolo, affiancate per le necessità spirituali al clero secolare o, come in questo caso, ad un ordine monastico (1).

Il suo periodo iniziale resta totalmente sconosciuto, se si eccettua la data di fondazione, il 25 maggio 1332, nella chiesa di S. Maria Maddalena che gli Agostiniani avevano in Borgo (2).

Quando questi si trasferirono dentro la terra d’Empoli, nel 1367, anche i confratelli, grazie all’intercessione del Generale dell’Ordine, Ugolino, ottennero in data 16 gennaio 1370, una sede entro il nuovo convento di S. Stefano, nel luogo detto «Alanchiostra», compreso tra questa via ed il convento (3).

In cambio della cessione gratuita, si impegnarono a rivolgersi esclusivamente agli agostiniani per la loro cura spirituale.

Sulla ubicazione di questo nuovo insediamento sono illuminanti alcuni ricordi posteriori, dove si afferma che «… la compagnia vecchia era dalla torre dei frati, appiè delle mura d’Empoli… ».

Da questa e da altre testimonianze è possibile (4) dedurre che fosse ubicata lungo il lato meridionale dell’attuale chiostro di S. Stefano, appunto ai piedi della torre tuttora esistente.

A suffragare tale ipotesi sono inoltre alcune scritte, una numerazione in caratteri romani dal 26 al 37 ed un cartiglio con un’iscrizione latina in caratteri tardo trecenteschi.

È lecito supporre perciò che la seconda cerchia muraria cittadina non passasse molto lontano dall’area in cui fu edificato poi il chiostro e che il lato meridionale di quest’ultimo costituisse il pomerio, cioè quella via detta « lungo le mura » più volte citata in documenti (5), la quale iniziava da quella che sarà detta via delle Conce e che sboccava nella corte minore del convento, detta corte del pozzo, per proseguire lungo il lato del castello.

La compagnia dovette arricchirsi in breve tempo, come sembrano testimoniare l’acquisto nel 1397 di una cappella in S. Stefano ed il cospicuo inventario del 1469. In tale documento, oltre a pezzi di notevole valore economico ed artistico, quali croci e tabernacoli, spiccano alcune tavole, tra cui una di Lorenzo di Bicci, tuttora esistente, ed una incoronazione della Vergine, dispersa; in esso è inoltre contenuto il pagamento a Masolino dell’affrescatura della cappella di S. Elena e l’interessante inventario dello Spedale che la compagnia possedeva in Borgo (6).

Importantissimo per comprendere la storia non solo della compagnia, ma dell’intero complesso di S. Stefano, è un lascito fatto il 5 febbraio 1427 da Monna Nanna degli Alberti. Il legato comprendeva, sotto obbligo di uffizi e feste, un podere a Gerfalco, popolo di S. Martino a Gavena, comune di Cerreto, con divieto assoluto di alienazione. Per i parati necessari all’altare i confratelli avrebbero potuto vendere tuttavia altre terre ed una fornace da mattoni fuori Porta Fiorentina (7).

Nonostante il divieto, il podere fu venduto nel 1444 agli Orlandini di Firenze, i quali nel 1520 lo rivendettero alla compagnia per il prezzo di scudi 222, prestati da fra Giuliano, Priore di S. Stefano. In difetto di rimborso del prestito, il podere pervenne, tramite il Priore, al convento di S. Stefano (1525), originando una controversia, che con alcune pause, si protrarrà fino al XVIII secolo (8).

La ricchezza della Compagnia, superiore per molti versi al patrimonio di S. Stefano, durante il XV secolo scatenò la rivalità tra il convento agostiniano e la Pieve di S. Andrea, che non aveva mai visto di buon occhio l’insediamento fratesco (9). Da una pergamena risulta che il 17 gennaio 1470 « … i sindaci e i priori compagnia della Croce d’Empoli, col notaio e Guido di Puccio, degli Otto di Balia di Firenze, si presentava davanti la porta grande del convento, e risponde fra Damiano che non può e non vuole aprirgli, ed essi vanno alla porta di dietro del convento, che è presso le mura del castello, e i frati gli risposero come sopra …» (10).

Da altri ricordi sappiamo che il 19 novembre dello stesso anno, il sindaco della compagnia, Matteo d’Agnolo di Nicolò d’Agostino, deve ricevere 12 soldi e danari per essere andato a Firenze dagli Otto di Balia e dall’Arcivescovo a protestare perché i frati di S. Agostino «…avevano spianata la compagnia nuova…»(!!).

Sembra infatti che la compagnia volesse trasferirsi dalla sede ricevuta nel 1370, costruendo un nuovo edificio senza il permesso dei frati, spalleggiata dal pievano Giovanni del Malepa, il quale voleva porre sotto la sua tutela la ricca confraternita. Verosimilmente in seno a questa avvenne una scissione, giacché si riferisce che durante la notte i confratelli devono montare la guardia ai muri della nuova Compagnia, per difenderli «… contra agli omini che s’erano revoltati…» (12).

Sulla fine del novembre, il sindaco Matteo si reca nuovamente dagli Otto affinché i frati rendano «… e’l crucifisso e la tavola dell’altare e molti altri arnesi della nostra compagnia …» (13).

Da un ricordo dei frati, le cose risulterebbero andate diversamente: «… certi buoni omini di detta compagnia si accordarono col piovano Messer Giovanni del Malepa e fecero guerra con lui di cavarci detta compagnia di convento, promittendogli censo di 7 libbre di cera l’anno, e col suo favore spogliorno detta compagnia, di croce, crucifisso, e per mezzo d’uno degli Otto, fecero legare quattro frati e menarli a Firenze …» (14). Anche se sfuggono i motivi, è probabile che siano stati gli Agostiniani a sottrarre ed occultare gli arredi, come attesterebbe un altro ricordo: «… Duccio, famiglio degli Otto, li ritrovò (il crocifisso e la tavola) in diversi luoghi che e’ frati ce l’avevano tolti dalla nostra compagnia furtivamente; forno portati appresso al piovano …» (15).

La maggior attendibilità è data appunto dall’intervento di questa magistratura di primo piano nella Repubblica Fiorentina e di protettori famosi, quali Bartolomeo della Scala, Tommaso Soderini, padre di Piero, e Alamanno de’ Medici, Gonfaloniere di Giustizia nel 1483 e pronipote in linea diretta di Salvestro, il capostipite della famiglia. I tre personaggi sono infatti ricordati come protettori della compagnia «… in quelle ingiurie della disfazione della muraglia della nuova compagnia, et de’ furti fatti dai frati…». In segno di riconoscenza furono loro donate cinquanta libbre di pesce marino, « cotto e crudo » (16).

La situazione dovette rapidamente normalizzarsi se nell’ottobre del 1471 i frati stipularono col pievano alcuni « capitoli » (17), mentre nell’aprile successivo si giunse ad un compromesso con la Compagnia (18) e la vigilia di Natale del 1474 fu fondata un’Opera di S. Stefano tra la compagnia ed i frati (19).

Su queste premesse il 27 ottobre 1503 fu concesso alla Compagnia un nuovo sito «… a lato della sacrestia e di rieto alla cappella di Sancto augustino, di lunghezza di braccia XI colla grossezza del muro e la lunghezza de braccia venticinque, codesta grossezza di detto muro è da fare uno spogliatoio nella corte della sacrestia, largo braccia cinque, colla grossezza del muro e larga in sino al muro di detta corte … E più gli omini di detta compagnia danno al convento in ricompensazione e’l sito della lor compagnia col muro andante verso le mura vecchie del castello…» (20).

Un anno dopo veniva dato solenne inizio alla costruzione (21), terminata nel 1510.

Quasi contemporaneamente, nel 1507, i confratelli decidono di fondare un monastero femminile (22). Questo, dedicato alla SS. Croce in onore dei patroni, adottò la regola benedettina ed alle monache, giunte da S. Maria di Sala di Pistoia, nel 1513, fu concesso l’uso dello Spedale della Compagnia (23).

A causa della guerra del 1529-1530, il monastero fu spianato e le monache poste temporaneamente nella casa di Monna Taddea Capacci in Piazza. Essendo inoltre «… a quel tempo i fratelli della Croce in discordia, avendola ridotta miserabile, con deliberato animo, donorno tutti lor beni stabili a detto monastero … (24). Circa un anno dopo, la compagnia di S. Andrea donò alle monache uno Spedale che possedeva in via dei Frati, pressoché contiguo al convento agostiniano, in permuta del terreno che queste possedevano in Borgo (25).

Anche se brevemente, è il caso di far notare la ricchezza posseduta in questo periodo dalla compagnia della Croce, la quale, nell’arco di un ventennio, viene rifondata, dona il proprio Spedale alle monache, si accolla le spese necessarie alla sua trasformazione ed infine dona anche tutte le sue proprietà fondiarie, decisamente consistenti (26); naturalmente in corrispettivo esigeva uno stretto controllo sul nuovo monastero, esercitato attraverso la costituzione di un’Opera, i cui quattro membri erano confratelli (27).

Questa condizione patrimoniale fu bruscamente interrotta dall’assedio e dal sacco ad opera degli Imperiali nel 1530. Ciò segnò l’inizio della decadenza non solo del convento di S. Stefano, ma dell’intera città. In un primo tempo le cose per la compagnia non andarono diversamente. Dopo il sacco, questa « restò con poche e deboli persone » e la porta dell’oratorio fu murata, in quanto «… era stata usata come magazzino per sale, zolfo e salnitro e polvere …» (28).

Probabilmente tale chiusura è da imputare, oltre che al saccheggio ed alla successiva pestilenza, anche al fatto che la compagnia si trovava priva di entrate fisse, avendo donato le sue terre alle monache e dovendo vivere solo della tassa sugli iscritti. Tuttavia, con una supplica inviata a Cosimo I, nel 1559, viene riaperta (29) e, dato che andava ripopolandosi (30), fu chiesta ai frati la retrocessione del podere di Gerfalco (31).

Dopo alterne vicende nel corso delle quali i frati incorsero anche in una scomunica pontificia (32), la Compagnia tornò nel1562 in possesso del podere. Un terzo del ricavato annuo sarebbe stato diviso tra il convento e fra Giuliano, ultimo proprietario; alla sua morte l’intero terzo sarebbe spettato ai frati (33).

Grazie a questa rendita fissa, la Compagnia si locupletò nuovamente, come attestano i numerosi arredi acquistati fin dalla seconda metà del XVII secolo e, in misura maggiore, i due inventari secenteschi (34). Fin dal luglio del 1594 sono documentati pagamenti a Maestro Jacopo di Bartolomeo Pagolini di Firenze per la cornice della tavola dell’altare e a Ludovico di Giovanbattista Cardi da Cigoli che vi dipinse la Deposizione (35). Nel 1596 fu rifatta per ben due volte, perché non soddisfaceva, la tribuna dell’oratorio, terminata nei primi  mesi del 1600 (36). Gli abbellimenti proseguirono praticamente senza sosta con la commissione dei nuovi stalli, tuttora esistenti, a Maestro Nicolò di Nello da Ponte a S. Trinità, nel 1610, per la ragguardevole somma di scudi 500 (37).

Questa notevole ripresa economica, durata per l’intero XVII secolo, è perfettamente comprensibile, conoscendo l’attaccamento della popolazione alla Compagnia. Se infatti gli iscritti al momento della riapertura erano solo 7 (1559), a fine secolo assommavano già a 42 (38). Utili a questo proposito sono i resoconti dei vari pellegrinaggi compiuti dai confratelli tra Cinquecento e Seicento a S. Miniato, Loreto e Roma, con le accoglienze trionfali tributate dalla popolazione al loro ritorno (39).

Di pari passo alla ritrovata tranquillità economica, riprendono i dissidi con i frati. Pomo di discordia è ancora una volta il podere di Gerfalco: nel 1585 infatti la compagnia si rifiuta di dare le 18 sacca di grano, corrispondenti al terzo pattuito nel 1562 (40). Nonostante tre sentenze favorevoli ai frati, di cui una del Nunzio Apostolico, gli screzi perdurarono (41).

Sempre in tal senso è infatti da interpretare un’ennesima supplica, stavolta indirizzata dai confratelli, al Granduca, perché facesse togliere un « epitaffio » sul lato del chiostro del convento adiacentela Compagnia(42). A poco a poco, durante la prima metà del XVII secolo, si assiste ad un progressivo allontanamento della Compagnia dalla cura dei frati, a cui corrisponde un avvicinamento al pievano (43). Buoni rapporti non sussistevano più nemmeno con le monache, in quantola Compagnia reclamava le terre donate nel 1529, dato che le suddette non avevano rispettato i termini del contratto (44).

Un ennesimo motivo di attrito fu causato dalla cosiddetta lite delle sepolture.

Un primo episodio, subito sopito, si verificò nell’agosto del 1610, quando il pievano negò il permesso di seppellire in S. Stefano Donna Bartolomea, figlia di Giuseppe Scarlini, secondo le sue ultime volontà.  La questione, probabilmente a causa dell’importanza della famiglia, fu affidata ad un giureconsulto, il quale dette ragione ai frati (45).

La lite riprese dopo il 1670, quando il proposto Cortigiani (1680-1683) e successivamente il proposto Marchetti (1690-1693) pretesero a più riprese d’esporre in S. Andrea i confratelli defunti, mentre ciò spettava, fin dalle origini della compagnia, ai frati. Questi reagirono decisamente, negando il passo al corteo funebre attraverso S. Stefano; parimente ferma fu la reazione della parte avversa. Gli Ufficiali della Compagnia decisero di far celebrare da allora le loro funzioni ad altri religiosi, prevalentemente secolari. Il proposto tentò addirittura di far passare i cadaveri attraverso un sotterraneo sotto al convento (46). Ciò causò lo sdegno popolare verso gli Agostiniani, i quali furono perciò costretti a concedere il passo, accettando così che l’ufficio funebre dei confratelli fosse celebrato dal proposto (47).

La cosa ebbe uno strascico, in quanto la compagnia, « sdegnatasi », si rifiutò di pagare il terzo del podere di Gerfalco spettante a S. Stefano, come appare da un esposto del 1690 dei frati al Granduca, il quale si limitò ad invitare le due parti ad un compromesso (48), rifiutato dal Priore agostiniano.

Questi si appellò nuovamente al Granduca, dopo pochi anni (1699) (49). La questione fu affidata allora a due arbitri scelti singolarmente da ciascuna delle due parti. I frati scelsero il conte Tommaso della Gheradesca, vicario dell’arcivescovo di Firenze; la Compagnia, l’arcidiacono Bacci, primo auditore del Nunzio fiorentino (50). Il compromesso finale fu siglato il 4 gennaio 1701, ma reso esecutivo solo tre anni più tardi: la Compagnia fu condannata a pagare 108 sacca di grano entro quindici giorni (51).

Quasi contemporaneamente fu risolta anche la controversia sulle sepolture. Con un ulteriore compromesso, nel 1705, fu stabilito che, in caso di morte di un iscritto alla Compagnia della Croce, ai frati sarebbe spettato di suonare le campane e alzare la croce; in seguito avrebbero dovuto recarsi in Pieve a prelevare il proposto e il clero; tutti insieme poi si sarebbero quindi portati a casa del defunto, traslando la salma in S. Stefano, per la celebrazione delle esequie (52).

Il cerimoniale, regolato in modo assai preciso, dimostra come l’intero rituale fosse solo un momento di quella lotta a colpi alterni tra il Convento ela Pieve, i due centri di potere religioso locale, la quale perdurava fin dai tempi dell’insediamento agostiniano. Anche dopo quest’ultimo scontro non si può parlare di vinti o vincitori tra i due contendenti, avendosi piuttosto l’impressione che la vera perdente fosse la Compagnia della Croce. Le lunghe lotte, ma soprattutto la sentenza in merito al podere di Gerfalco, l’avevano prostrata economicamente, per cui, anche se la Pieve era riuscita a toglierla alla cura dei frati, la Compagnia era rimasta solo l’ombra della ricca confraternita del secolo precedente.

Asservita all’Opera di S. Andrea, per l’intero XVIII secolo cadde in una profonda crisi, culminata con la soppressione. Inutilmente tentò di risollevarsi chiedendo la restituzione dei beni donati alle monache o mediante la donazione di Giovanni del Sere di trecento scudi a censo (1733). Risulta infatti che ancora nel 1775 era debitrice, nei confronti dei frati, di scudi 87.4.11.2, per cui fu costretta a sospendere la celebrazione degli obblighi, a causa della mancanza di fondi (54).

La storia secolare della Compagnia termina nel 1785, quando Pietro Leopoldo la sopprime insieme a molte altre. Come indennizzo, i frati ricevono due censi, uno proveniente dalla soppressa Compagnia di S. Lorenzo di Montelupo e l’altro da quella, parimente soppressa, di S. Rocco a Spicchio (55). Soppressa il 3 di marzo, il 30 aprile dello stesso mese fu consegnata con i locali annessi (corte, spogliatoio) ai frati, con tutto l’arredo, esclusi gli oggetti d’argento, incamerati dalla Pieve (56).


Note

(1) Sulle confraternite cfr.: Monti G., Le confraternite medioevali, Venezia-Firenze, 1927; Mehus ab. L., Dell’origine delle confraternite laicali, Roma; Maselli D., Da Dante a Cosimo I, Firenze, 1977.

(2) A.S.F., Corp, soppr. 703, filza 4, c. 101. Le altre compagnie empolesi erano: quella di S. Andrea, fondata in Pieve nel 1340; di S. Lorenzo, del 1367; di S. Michele, nell’omonima chiesa di Pontorme, del 1363; della S.S. Annunziata, in S. Stefano, del 1374; del Crocefisso, sempre in Pieve, 1399.

(3) A.S.F., Dipl. 58, n. 9, 16 giugno 1370; cfr. Appendice, doc. I.

(4) A.S.F., Conv. Soppr. 72, filza 31, c. 31, c. 35; Comp, soppr. 703, filza 6, c. 10.

(5) A.S.F., Dipl. 58, n. 9, 13 gennaio 1371.

(6) A.S.F., Comp, soppr. 703, filza 6, c. 1 v. – 3.

(7) A.S.F., Conv. soppr. 72, filza 51, c. 3; filza 33, c. 261. In questa fornace furono cotti i mattoni impiegati nella costruzione della terza cerchia cittadina (1479-87); Figlinesi. V., Notizie di Famiglie empolesi, A.T.P.E., Empoli, 1965.

(8) Si veda più oltre.

(9) Nel 1291 il Priore di S. Andrea assalì la chiesa di S. Maria Maddalena danneggiandola seriamente ed asportando l’arredo. Il Davidsohn (Storia di Firenze, tomo III, ediz .itp.593’ così narra l’episodio: « Nel 1291 le condizioni politiche dovevano aver raggiunto un grado di incertezza straordinariamente grave. Dinanzi a Empoli era un convento di eremiti dell’Ordine di San Agostino, i frati del quale erano odiati dal clero secolare, probabilmente per ragioni di concorrenza ecclesiastica, strettamente connesse a interessi materiali. In primavera un priore, i rettori di sei chiese, un canonico della chiesa principale di Empoli si unirono in una congiura, chiamarono in aiuto sbanditi fiorentini e pistoiesi, assaltarono di notte il piccolo convento, ferirono alcuni degli eremiti, danneggiarono l’edificio ed asportarono le campane, i libri e gli arredi della chiesa. L’atto di violenza fu comunicato alla Curia di Roma, ma Niccolò IV fu assai mite verso i saccheggiatori, gli affari dei quali dovettero esser trattati ad Orvieto con particolare abilità ». Nel 1295 il pievano Jacopo proibì la costruzione della chiesa (Arch. Coll. Camp. Ben. A).

(10) A.S.F., Dipl. 58, n. 9, 17 gennaio 1470.

(11) A.S.F., Corp, soppr. 703, filza 6, c. 41.

(12) Ibidem.

13) Ibidem a c. 45.

(14) A.S.F., Conv. soppr. 72, filza 31, c. 35.

(15) A.S.F., Corp. soppr. 704, filza 6, c. 45.

(16) A.S.F., Corp, soppr. 703, filza 6, c. 45.

(17) Documento danneggiato dall’alluvione del 1966; A.S.F., Conv. soppr. 72, filza 38, c. 13.

(18) A.S.F., Dipl. 58, n. 9, 2 aprile 1472.

(19) Arch. Coll., Camp. Ben. A., c. 130.

(20) Documento riportato dal Giglioli in Empoli artistica, pp, 145-146.

(21) Ibidem; da ricordare la presenza del priore di S. Stefano e di Giosaffa di Bartolomeo degli Albizi.

(22) A.S.F., Corp, soppr. 703, filza 2, c. 1.

(23) Arch. Coll., Camp. Ben. A., c. 135; A.S.F., Corp, soppr. 704, filza 6, c. 2v.

(24) A.S.F., Corp, soppr. 703, filza 2, c. Iv; 705, filza 10 c. 19.

(25) Arch. Coll., Camp. Ben. A, c. 135.

(26) Questi infatti i beni immobili donati nel 1529 alle monache: « Un pezzo di terra lavorativa e pergolata e alberata nel popolo di S. Michele a Pianezzoli. Rende d’affitto scudi 10 l’anno. Più pezzi di terra lavorativa e pergolata nel popolo di S. Maria a Ripa; rende l’anno scudi 13. Una fornace da mattoni e da calcina con un pezzo di terra lavorativa e pergolata di staia 36 con due case fuori porta Fiorentina. Una casa in Empoli in via della Noce con due pezzi di terra a S. Leonardo a Cerbaiola. Un pezzo di terra lavorata nel popolo di S. Andrea d’Empoli. Un pezzo di terra lavorata e alberata nel popolo di S. Maria a Ripa di staia 12. Un pezzo di terra lavorata e alberata nel popolo di S. Maria a Cortenuova e la piaggia d’Arno. Più pezzi di terra lavorativa nel popolo di S. Maria a Ripa. Un campo nel popolo di S. Andrea d’Empoli nella villa di Ponzano. Un pezzo di terra di staia 3 e 1/2 in Padule. Un pezzo di terra di staia 3 nel popolo di S. Martino a Pontorme. Una casetta in Empoli nel chiasso di Malacucina. Una casa in Empoli nel popolo di S. Andrea fuori delle mura verso porta Pisana, al lato al podere della Pieve; al Piovano per scudi 12. Una parte di mulino per di 20 l’anno. La metà di un podere nel popolo di Collepietra per moggia 4 di grano ». (A.S.F.,. soppr. 705, filza 10, c. 19).

(27) A.S.F., Corp, soppr. 705, filza 10, c. 19.

(28) Arch. Coll., n. 347 bis, c. 1; A.S.F., Corp, soppr. 703, filza 2, c. 1.

(29) Ibidem.

(30) Nel 1570 gli iscritti erano 26 (A.S.F., Corp, soppr. 703, filza 2, c. 3).

(31) A.S.F., Corp, soppr. 72 filza 33, c. 262.

(32)  1 agosto 1526; A.S.F., Corp, soppr. 704, filza 6, c. 186v.

(33) A.S.F., Conv. soppr. 72, filza 33, c. 262.

(34) A.S.F., Corp, soppr. 704, filza 6, cc. 207-208; cc. 219-221.

(35) A.S.F., Corp, soppr. 704, filza 6, c. 49, c. 194.

(36) A.S.F., Corp, soppr. 704, filza 6, c. 87 c segg., c. 203.

(37) A.S.F., Corp, soppr. 704, filza 6, c. 202.

(38) A.S.F., Corp, soppr. 704, filza 2, c. 3.

(39) A.S.F., Corp, soppr. 704, filza 6, cc. 197-199.

(40) A.S.F., Conv. soppr. 72, filza 29, c. 11.

(41) Ibidem; nel 1601 i frati inoltrano una nuova protesta per lo stesso motivo; A.S.F., Conv. soppr. 72, filza 29, c. 45.

(42) Si tratta in verità di un’iscrizione a memoria di un antico debito nei confronti di S. Stefano. A.S.F., Corp, soppr. 704, filza 6, c. 201v.

(43) Sintomatico a tale proposito che da adesso i confratelli, nei loro spostamenti, non sostino più nei monasteri agostiniani, ma presso il clero secolare.

(44) Infatti l’Opera non esisteva più da tempo.

(45) A.S.F., Conv. soppr. 72, filza 41, inserto n. 2.

(46) A.S.F., Corp, soppr. 703, filza, c. 230; Conv. soppr. 72, filza 41, inserto n. 2.

(47) Le altre funzioni restarono di competenza dei frati. Ibidem.

(48) Forse in tale contesto è da considerare la cessione al Granduca della pala del Cigoli, sostituita con una copia. A.S.F., Conv. soppr. 72, filza 51, c. 64.

(49) A.S.F., Conv. soppr. 72, filza 41, inserto n. 2.

(50) A.S.F., Conv. soppr. 72, filza 34, c. 31 v.

(51) A.S.F., Conv. soppr. 72, filza 4, c. 39; filza 34, c. 31v.; Corp, soppr. 703, filza 4, . 249-250.

(52) A.S.F., Conv. soppr. 72, filza 34 c. 31v.

(53) A.S.F., Corp, soppr. 705, filza 11.

(54) A.S.F., Conv. soppr. 72, filza 30 bis, c. 114.

(55) A.S.F., Conv. soppr. 72, filza 34, c. 126; filza 35, c. 269.

(56) A.S.F., Conv. soppr. 72, filza 35, c. 236.


APPENDICE DI DOCUMENTI

 

Empoli, 16 giugno 1370,

II capitolo dei frati eremitani di Sant’Agostino d’Empoli, su precetto del priore generale fra’ Ugolino, concede gratuitamente alla Compagnia della Croce il terreno per la costruzione della nuova sede.

Rogito del notaio Marco del fu Vanni da Empoli.

(A.S.F. Diplomatico, 58, n. 9).

Atto inedito.

È menzionato dal Poggi  (Masolino e la Compagnia della Croce in Empoli, su « Rivista d’Arte », Anno III, 1905, nn. 2-3, p. 51) e dal Giglioli (Empoli artistica, Firenze, Lumachi, 1906, pp. 144-145).

Quest’ultimo così inquadra la vicenda:

« Secondo le più antiche memorie rimaste sulla compagnia, questa sarebbe stata edificata il giorno dell’Ascensione nel mese di Maggio del 1332 nella chiesa di Santa Maria Maddalena fuori delle mura. Ma, per causa principalmente delle guerre fra Pisani e Samminiatesi, fin dal Maggio del 1369 si chiedeva di fabbricare la compagnia dentro la Terra d’Empoli e presso il convento dei frati di Sant’Agostino; e nel Maggio 1373 avvenne infatti il trasloco, essendo stato il terreno gratuitamente concesso con un pubblico istrumento rogato da ser Marco Vanni d’Empoli. L’atto originale in pergamena, che porta la data del 16 Giugno 1370 si conserva nell’Archivio Diplomatico (Archivio di Stato di Firenze) ».

* * *

In Dei nomine, amen.

Anno ab incarnatione eiusdem millesimo trecentesimo septuagesimo, indictione octava, die sextodecimo mensis iunii, actum in ecclesia Fratrum Heremitarum ordinis Sancti Augustini de Empoli, presentibus testibus ad hec vocatis et rogatis, Curso olim Ioannis Cursi, Buccio Moris et Lippo olim Dree, omnibus de Empoli, et Barone olim Vannis de dicto Empoli et aliis.

Noverint universi presentem paginam inspecturi quod:

Convocatis ad capitulum Fratribus Conventualibus Heremitanis ordinis Sancti Augustini de Empoli, Comitatus Florentie, ad sonum campanelle, ut moris est, de mandato honesti et religiosi viri fratris Iohannis Nutini de Florentia, prioris dicti conventus de Empoli, ad quam convocationem congregati fuerunt in dieta ecclesia, ut moris est, infrascripti fratres, videlicet:

frater Augustinus olim Dini de Empoli,

frater Micael olim Cey de Sancto Miniate,

frater Galvinus olim Venturini de Vulterris,

omnes conventuales dicti conventus dictorum fratrum de Empoli, una cum dicto priore et dictus prior una, videlicet frater Iohannes una cum dictis fratribus conventualibus, asserentes se esse duas partes et ultra fratrum conventualium et capituli dicti conventus, omnes unanimi voluntate, visis et perceptis quibusdam licteris eis et dicto conventui transmissis per reverendum et religiosum virum fratrem Ugolinum priorem generalis dicti ordinis, quarum tenor talis est, videlicet:

« Frater Ugolinus ordinis Fratrum Heremitarum Sancti Augustini generalis prior immeritus religiosis viris priori ceterisque fratribus conventus de Empoli eiusdem ordinis salutem in XPO ecternam.

Gratuito dilectionis affectu combusti quam personis ad nostrum ordinem spiritualiter et sincere coniunctis, tam in favorem ipsius caritatis fraterne quam in dicti salutare nostri ordinis incrementum nos pariter convenit omniquo possumus debite recompensationis effectu liberis purisque mentibus conformari.

Cum itaque venerabilis congregatio et devota sotietas Sancte Crucis que ad honorem Dei infra locum nostrum hactenus extra muros sub sancta disciplina salubriter et diutius viguit, nunc infra terram Empolim, in nostro loco ibidem noviter suscepto ad prefate discipline unanimis confraternitatis preservativam prosecutionem domum velit ydoneam eamque a nobis postulaverit fabricare, eis et eorum votis gratanter annuentes, tenore presentium vobis precipimus per obedientiam salutarem quatenus sotietati predicte ad predictam domum per eos edificandam in territorio nostri prefati loci infra muros predicte terre suscepti partem congruam protinus assignetis cumque prelibatam domum ad eam solita convenientia inhabitandum peregerint, possitis ibidem tamquam in domo intrascripta loci ordinis situata altare erigere eidemque fraternitati spiritualia ministrare ut per Sedem Appostolicam nostro ordini ex privilegio concessum.

Et ut magis pacifice atque indissolubiliter in sua laudabili observantia sepedicta sotietas perpetuo conservetur, domum prefatam ad eorum usum predictum taliter appropriamus, tradimus et confirmamus ut nullus infra nos eam ab eis valeat amovere aut eos de ipsa centra eorum vota quovis modo audeat molestare sub pena inobedientie generalis prioris, quam contrafacientibus sine dispensatione quacumque irrevocabiliter infligemus.

Datum Florentie sub sigillo generalatus offitii anno Domini MCCC.LXX die XXIIIJta mensis maiy ».

Et cetera. Et ser(vatis) servan(dis) nec non actendentes et considerantes dicti fratres capitulum et conventus quod predicta redundant in honorem et commodum dicti loci et conventus totiusque ordinis prelibati, sequentes licteras suprascriptas et precepta dicti prioris generalis de quibus supra fit mentio et prehabito inter eos conloquio et deliberatione matura, omni via iure et modo quibus magis et melius potuerunt, assignaverunt et dederunt et tradiderunt Francisco olim Dree de Empoli et mihi Marche notario infrascripto tamquam publice persone stipulantibus et recipientibus vice et nomine suprascripte sotietati reverende Sanctissime Crucis Vestis Nigre:

quamdam partem terreni sive soli positam in castro et terra Empoli, sive unum petium terre positum in castro et terra Empoli in loco dicto allanchiostra, confines a J° et IJ° dicti conventus fratrum, a IIJ° via iuxta murum castri, a IIIJto dictorum fratrum, adhibendum tenendum et possidendum et in eo domum edificandum et domum in eo faciendum ad iisnm congregationis predicte sotietatis prout et sicut eidem sotietati per priorem generalem prefatum dicti ordinis est concessum. Quod quidem terrenum assignatum est longitudinis brachiorum… [lacuna nel testo]

Et promiserunt per se et suos successores dicto Francisco et mihi Marche notario infrascripto tamquam publice persone stipulantibus et recipientibus prò dieta sotietate et hominibus et personis et universitate eiusdem de dicto terreno super assignato et tradito et de domo super eo edificanda et construenda et fabricanda litem vel questionem vel controversiam ullo tempore non inferre nec inferendi consentire; supradictam assignationem et omnia et singula suprascripta et infrascripta perpetuo firma et rata tenere et centra non facere vel venire prò se vel aliis aliqua ratione vel causa, de iure vel de facto, sub pena dupli eius legum vigore et solepni stipulatione promissa; qua soluta vel non, rata maneant suprascripta et infrascripta omnia.

Item reficere et restituere eidem sotietati et eius successoribus omnia et singula dapna et expensas ac interesse qua et quas dieta sotietas fecerit vel sustinuerit in iudicio sive ex occasione predicta si centra factum fuerit sive venerit, pro quibus pro quibus [ripetuto] omnibus et singulis suprascriptis et infrascriptis firmiter observandis et firmis ratisque habendis et tenendis obligaverunt suprascripti fratres dicto Francisco et mihi Marche notario infrascripto ut supra stipulantibus et diete sotietati omnia et singula bona dicti conventus et capituli mobilia et immobilia presentia et futura et dictum (!) conventus et successores eiusdem, renumptiantes in predictis omnibus exceptioni doli mali, conditioni sine causa et ex iniusta causa, in facto actioni et omni alio legum et constituti auxilio.

Item fecerunt et inseruerunt et concesserunt dicti contrahentes in principio, medio et fine et in qualibet parte dicti contractus hoc pactum, videlicet quod si dicti fratres voluerint hedificare super domum per dictam sotietatem fiendam, teneantur et debeant dicti fratres et qui prò tempore fuerint facere voltam super dictam domum fiendam dicti conventus sumptibus et expensis.

Quibus quidem fratribus predicta omnia sic volentibus et confìtentibus precepi ego Marchus notarius infrascriptus prò guarentisia et nomine iuramenti, prout mihi licet ex forma capituli constituti communis Florentie de guarentisia loquentis, quatenus predicta omnia ascriptionis promissa, acta et facta observent et dictum contractum et instrumentum observent; presentes promiserunt. contraxerunt et stipulatum est: dantes et concedentes dederunt et concesserunt mihiMarchenotario infrascripto licentiam extendendi dictum instrumentum ad sensum saporis mei quanto magis et melius valeat et teneat dictum instrumentum rogantesque me Marchum notarium infrascriptum de predictis conficere publicum instrumentum.

(S. N.) Ego Marchus filius quondam ser Vannis de Empoli, imperiali auctoritate iudex ordinarius et notarius publicus, predictis omnibus internai eaque rogatus scripsi et publicavi ideoque me subscripsi. 

 

 


 

II

L’inventario della Compagnia della Croce in data 1° gennaio 1469.

(A.S.F. Corp. soppr. 703, filza 6, c. 2v-3).

L’inventario della Compagnia, trascritto al solito «… nelle sue parti più notevoli… », fu parzialmente pubblicato per la prima volta dal Poggi in Masolino e la Compagnia della Crocesu « Rivista d’arte », n. 2-3, pp. 46-50.

Completamente inedito è invece l’inventario dello Spedale che la compagnia possedeva e gestiva in Borgo, forse sul suolo della primitiva fondazione. E rilevante l’importanza di tale documento, forse unico nel suo genere per quanto riguarda il territorio empolese, utilissimo per conoscere più da vicino il funzionamento dello Spedale, per eventuali raffronti con istituzioni similari, e per una più ampia conoscenza del tessuto urbano e della società empolese nel XV secolo.

  1. 2v – Uno spedale con più casamenti intorno, con pezzo d’orto di staiora … (1), con ogni sua arnesi, et parimente con sua vocaboli et confini fuori del castello d’Empoli, nel populo de Sancto Andrea; da primo e da secondo via, et da terzo beni della Compagnia della Croce posta nella Pieve d’Empoli, et da quarto Giovanni di Niccolaio Zazeri d’Empoli.

XIII paia di leptiere ripte in detto spedale a uso di letti.

XVI coltrici di più colori a uso di letto del detto spedale (2). XXIII pianacci a uso delle sopraddette coltrici, di peso di libbre 330.

XI copertori azzurri nuovi, foderati di rosso, et in parte usati, di braccia quattro e mezzo, lunghi e larghi bracci tre e mezzo, a uso delle dette letta del detto spedale.

Uno copertone giallo e rosso usato, di braccia 4 largo, e lungo braccia 3.

  1. 3 – II coverte bianche da letto, cioè dua coverte di panno bianco da mulattiere di braccia quattro e mezzo larghe, e lunghe braccia tre e mezzo, a uso delle dette lecta del detto spedale.

XXIII lenzuola, cioè ventitré lenzuola di panno nostrale tra nuove e usate buone, a uso delle lecta del detto spedale.

Uno paiolo di rame di tenuta d’un barile o circa, usato.

Una secchia, usata, di rame.

Uno tino di tenuta di barili quattro, usato.

Una catena da fuoco, usata.

Uno paio di molle, usate.

Una padella, usata.

IIII Quattro coppe, usate.

Una tavola usata con paia di trespoli a uso di decta tavola.

Una conca nuova di tenuta di quattro staia o circa.


Note

(1) In bianco anche nel testo.

(2) Al margine destro si legge: « segue l’elenco delle coltrici ».

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Antonio Sedoni: Introduzione ai Codici Miniati Empolesi – Glossario dei termini.

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 Le nozze di Cana, particolare taola imbandita

      Antifonario: libro liturgico che contiene la musica delle antifone e responsori della liturgia delle ore.

      Antifona: pezzo musicale, solitamente breve, premesso ad ogni salmo nella liturgia delle ore.

     Campo della lettera: superficie appositamente riservata nella pagina o nella colonna, misurabile in base al numero di righe lasciate libere dal testo; spesso è delimitato da una cornice che ha la funzione di separare l’immagine dal testo per darle una maggiore autonomia.

      Coda: nasce come prolungamento calligrafico della lettera; nel Medioevo assume l’aspetto di una coda formata da tralci vegetali ed altri elementi fogliacei alternati spesso con fiori; ad esse si possono intrecciare piccole figure (drôleries) o narrazioni, spesso entro clipei (scudo rotondo).   

      Corale: libro liturgico contenente gli uffici del coro.    

      Corpo della lettera: struttura grafica della lettera.

      Fondo della lettera: campo interno della lettera delimitato dal corpo della stessa. 

    Graduale:…

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Tre Deposizioni in Santagostino

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Storia di grandi pittori e di piccoli misteri

Il Gran Principe, figlio primogenito di Cosimo III, era venuto a conoscenza che a Empoli c’era una tavola del Cigoli, una Deposizione di particolare bellezza, che stava, dal gennaio 1608, sull’altare della Compagnia della Croce, in Santo Stefano degli Agostiniani. La volle a tutti i costi per la sua collezione. Dette incarico a persona di sua fiducia, un cappellano di corte, tale don Filezio (negli avanzi di tempo cacciava anche i demoni dagli indemoniati) di trattare con i Confratelli, legittimi proprietari della tavola dipinta a olio. Erano quasi tutti ricchi commercianti empolesi, abilissimi nelle trattative. Che si protrassero per un po’, per chiudersi infine con la fatidica stretta di mano. Il “nostro” Cigoli fu portato a Firenze, per via di navicello, e subito esposto nella collezione medicea, a Pitti. Dove sta, nella Galleria Palatina, ancora oggi, con il numero 51.

In cambio…

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