Da Emporium, settembre 2010
L’uomo dal fiore in bocca
Ricordo di Giampiero Becherelli
di Paolo Pianigiani
Giampiero, guardandomi serio, mi disse:
“Fammi una scena grigia, senza nessun colore. Pirandello qui parla di cose serie: sulla morte non si scherza“.
Ero il suo tecnico delle luci, in quello splendido spettacolo che si intitolava “Io e la mia ombra”, e stavamo provando, chissà quanti anni fa, la scena più intensa di tutto lo spettacolo. Era un pezzo di bravura assoluta, che Giampiero interpretava con la sua capacità umana prima che di mestiere, unica. Ci si conosceva appena, anche se vicini di casa, e quando suonò alla porta dicendomi chi era e che aveva bisogno di una mano per realizzare una sceneggiatura, rimasi un po’ sorpreso; voleva una scena diversa dalle solite, non tradizionale. Dividevo lo studio di pittura con Antonio Sedoni, amico da sempre, e lui più di me aveva capacità e idee su queste cose.
Dopo un paio di incontri, dove ci spiegò il testo, Antonio preparò un progetto semplice, ma ricco di possibilità scenografiche.
Erano sagome realizzate con carta velina, quasi impalpabili, sospese in aria che, colpite da luci colorate, proiettavano disegni e fantasia sul fondo; era una sorta di caleidoscopio aperto sulla scena. Voleva essere per Giampiero una sorta di addio alle scene e al suo pubblico, dopo tanti anni di carriera. Ci teneva moltissimo e si preparò per la “prima” con scrupolo, da professionista qual’era. Si formò un gruppo molto affiatato, formato da Lorenza, moglie dell’attore, che da dietro le quinte organizzava tutto, Beppino Fabiani, montatore delle scene, Mario Manetti agli impianti elettrici, Antonio Sedoni e io che ci occupavamo delle luci e facevamo in qualche modo da aiuto registi aggiunti. Le musiche erano state incise appositamente a Roma, e a gestirle ci pensava il fonico, l’amico Maurizio Corrieri. Ma il centro era lui, vestito di nero, impeccabile, che si muoveva perfettamente a suo agio sulla scena, composta da una sedia, un leggìo e qualche cubo che voleva rendere e simulare lo spazio. Era un monologo in due tempi, una serie di brani legati fra loro solo dal fatto di essere stati scelti dall’attore: gli appartenevano, erano le perle del suo lungo militare sui palchi di teatri di mezza Italia, come brani musicali di un virtuoso di violino. E Giampiero accordava le corde del suo meraviglioso mestiere a quei testi, inchiodando gli spettatori, che passavano dall’emozione profonda e sensuale della poesia gitana di Garçia Lorca de “La sposa infedele”, al più intimo racconto suo, “La signorina”, quello dove, ricordando l’infanzia, il protagonista parla del “cinabrese”, che sua madre stendeva sui mattoni rossi del pavimento. Fu sempre un successo, nelle varie repliche che seguirono, arrivando anche a Firenze, al teatro delle Laudi.
E ogni volta, da grande attore che sentiva la scena, Giampiero era teso, nervoso, prima dello spettacolo. Per farlo sorridere gli chiesi, mi pare durante la replica che si tenne a San Miniato:
– Ma mi dici una cosa, o che è questo benedetto cinabrese che tu rammenti sempre? E lui rise di gusto, ma un po’ amaro: in effetti solo quelli di una certa età potevano sapere di questo colorante per i mattoni del pavimento dall’odore così caratteristico… E quando arrivò al punto dove lo ricordava, mi mandò un sorriso d’intesa, a me solo, oltre il pubblico, dietro al tavolino magico con i comandi delle luci. Lo ricambiai con un “tutto rosso”, come segno che avevo capito. Sono ricordi che rimangono, indelèbili, di un grande attore, che ha vissuto qui ad Empoli per tanti anni, accanto a noi. E che ho avuto la fortuna di conoscere.
E ora che l’ultimo filo d’erba del “cespuglietto sulla proda”, affidato al pirandelliano “pacifico avventore” è stato strappato, caro Giampiero, goditi sereno l’interminabile applauso del tuo pubblico, che sapevi cosi tanto apprezzare e che non ti dimenticherà. Mai.